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The Infinite

Lo scorso anno Patti Smith, nel suo concerto a Roma, ha declamato L’Infinito di Leopardi, a significare il rapporto stretto e profondo con la regione Marche.

Ci sono tantissime traduzioni in inglese di questa meravigliosa poesia. Patti Smith ha usato quela di Roland Rogers. Eccola:

This hermit hill was always dear to me,
with its hedgerow hiding
the last horizon in so many places.
But as I sit and gaze and conjure
unending spaces,
unearthly silences,
and utter sillness,
my heart almost stops in fear.
When… storming through the leaves
the wind brings me a voice to set against
the infinite silence; and eternity
and seasons past, are summoned
to breathe in this moment and sound.
And my thoughts drown in this vastness,
where to founder is sweet and gentle in this sea.

Roberto Vecchioni, l’ultimo maestro rimasto.

Roberto Vecchioni allo Squadre Music Festival, Montegiorgio
Roberto Vecchioni allo Squadre Music Festival, Montegiorgio

Sono stati diversi i momenti intensi, due giorni fa, durante il concerto di Roberto Vecchioni.

E’ salito sul palco alle 22 esatte, attaccando con la splendida “Ti insegnerò a volare” e ricordandoci, quando non sappiamo “correre e nemmeno camminare”, l’importanza di essere visti, sorretti e disegnati.

Ha una voce un po’ più flebile il Prof, ma la sua mente è sempre acuminata, e il suo modo di raccontare e raccontarsi sempre piacevole. Dice cose importanti, sull’amore soprattutto; sul suo amore, soprattutto; le intervalla con ironia, nostalgia e senso del presente, disegnando questo caleidoscopio di colori dove la musica è parte del racconto, è parte della vita che ha vissuto e che vive.

“Non ci sono più maestri” – dice – “io io ne ho avuti tanti”, e inizia El Bandolero Stanco. E a me viene in mente quel viaggio con Vincenzo, dalle Marche fino a Roma, solo per strade urbane, ad ascoltare questi nostri autori. Vincenzo sapeva interpretarlo magnificamente, aggiungendo aneddoti ad ogni canzone, e sapeva, forse di più, emozionarsi davanti alla sua poesia e alle sue parole. Davanti al treno de La Stazione di Zima, ad esempio. Testimoni di maestri, passati di mano in mano. Che mancano tanto.

E poi ci sono state quelle due/tre canzoni in cui la recente storia personale (il suo rapporto con la morte, e la morte terribile di suo figlio solo qualche settimana fa) ha invaso la scena. “C’è una madre distrutta” aveva sussurrato su qualche canzone prima. E ogni volta che parla di Daria, per tutta la sera in questo continuo e bellissimo omaggio alla persona che è con lui “quasi” da sempre, lo fa con grazia e ironia. E consapevolezza: “Che fortuna che ho avuto”.

“Siamo al culmine”, dice. “Devo farla, perché l’artista è colui che racconta. Senza non è niente”. E canta Le Rose Blu. In questo che chiama “dialogo, non una preghiera”, dice a Dio per suo figlio: “Fagliele rifiorire”. E mi ritrovo anche io con questo pensiero eretico, eppure così umano. Che Dio avrebbe potuto, avrebbe addirittura dovuto. Invece c’è solo questo dolore, il suo e della mamma di Arrigo, che ha reciso la corolla facendo rimanere solo il gambo di spine. Arriva al termine il Prof, emozionato e piangente, piegato in due. Attraversando quel quel dolore, senza sottrarsi a nulla. Senza sottrarsi mai.

Un momento prima di iniziare questa canzone, dice una frase di grande tenerezza. Ha detto: “Adesso questo momento di intensità, poi proverò a farvi ridere”. Proverò a farvi ridere. Come se avesse voluto scusarsi per averci invaso della sua emozione e del suo dolore. Come se avesse voluto aver cura di noi; dirci che quel dolore sarebbe passato, e sarebbe tornata la gioia. Quella che per tutta la serata ci ha dato: gioioso della vita senza finzione, addolorato con la stessa vita che gli tolto suo figlio. Ma succede così per tutte le sue cose: hanno la capacità di farsi ampie, spesso doppie, a volte contrastanti, ma sempre intrecciate dallo stesso filo rosso dell’amore.

Una carriera lunghissima, 53 anni a scuola, 80 anni da poco compiuti. Un ultimo album con tantissime cose dette, musicalmente e non e uno spettacolo capace di far comparire sulla scena Ulisse, Vincent Van Gogh, Leopardi, la combattente curda Ayse Deniz Karacagil. Non so chi altri sia stato così intenso da intrecciare letteratura e poesia. Letteratura, musica, poesia e amore così strettamente alla propria vita.

The Wrecking Band. Musica ed emozioni vicini alla luna.

Diego Mercuri e la Wrecking Band
Diego Mercuri e la Wrecking Band

Ad un tratto è apparsa la luna a salutare Diego e i ragazzi. Poi è salita fin nel nero della notte per essere il segno del buon auspicio che tutti gli auguriamo. Dal terrazzo di Montefalcone, con una veduta mozzafiato sulla valle, credo non poteva esserci luogo migliore per festeggiare i 10 anni della Wrecking Band. Ormai è una macchina rodata che suona le proprie canzoni e le proprie cover con precisione, con gusto, divertendosi.

La prima volta che ho ascoltato Diego era un agosto di una decina di anni fa. Era issato, da solo con la sua chitarra, sopra ad un palco al lato di un campo da calcetto e di non so quanti bimbi scalmanati completamente disinteressati a lui e alla sua musica. Eravamo in pochi ad ascoltarlo: quelli che cercavano musica di Bruce per lenire la propria astinenza.

Ora ha un proprio pubblico, ha affinato la sua tecnica, ha 4 moschettieri (forse 5) con cui condivide ed esprime la propria arte, ha scritto canzoni bellissime che lo narrano e in cui ha messo il cuore, porta la gioia e il dolore della musica a chi lo ascolta. Ha fatto molta strada, ne farà tanta altra, senza perdere nulla della semplicità di cui è capace.

Stasera ha cantato una versione da brividi di The Sound of Silence che spero si possa trovare presto online. C’è dentro tutto il suo genio, la sua arte, e questa sua voce che si trasforma davanti ad un microfono: piena della capacità di emozionare.

Baraye

Per la libertà.

Per il desiderio di ballare nelle strade.
Per il timore di baciarsi in pubblico.
Per mia sorella, per tua sorella, per le nostre sorelle.
Per cambiare quelle menti corrotte.
Per la vergogna della povertà.
Per l’augurio di una vita normale.
Per i bambini costretti a cercare nella spazzatura, e per i loro sogni.
Per questa economia di regime.
Per quest’aria inquinata.
Per la via Valiahd e i suoi alberi consumati.
Per l’estinzione del Pirooz.
Per i cani randagi banditi.
Per questo singhiozzare inconsolabile.
Per non ripetere più questo momento.
Per un viso sorridente.
Per gli studenti, per il loro futuro.
Per questo “paradiso” forzato.
Per gli intellettuali imprigionati.
Per i bambini afghani.
Per tutti questi, troppi, “per”.
Per tutti questi slogan senza senso.
Per il crollo di questi fragili edifici.
Per sentirsi in pace.
Per l’alba dopo queste notti scure.
Per gli psicofarmaci e l’insonnia.
Per l’uomo, la patria, la prosperità.
Per quella ragazza che desiderava essere un ragazzo.
Per la donna, la vita, la libertà.

***

Shervin Hajiaghapour è stato arrestato per questa canzone, poi liberato su cauzione.

La traduzione è mia, dall’inglese.

Nanci Griffith, e quegli occhi voraci di mondo

Ho conosciuto Nanci Griffith in una delle tante peregrinazioni intorno alle cover cantate da Bruce. A decine: un mostra straordinario per omaggiare colleghi famosissimi, o altri meno conosciuti. E del resto, io non ho mai avuto molti altri modi per conoscere altri artisti.

Bruce aveva provato “Gulf Coast Highway” di Nanci in un sound check nel Tunnel Of Love tour. Credo non la canterà mai ufficialmente; ma ci sono bootleg dove è possibile ascoltare quella performance. C’è Patti e c’è questo “La la la” che scioglie le spalle, che cerca di ridisegnare leggerezze. Anche se è un sound check, anche se è del tutto informale. E c’è questa strofa arpeggiata con la chitarra che somiglia vagamente a “My beautiful reward”.

Mi piacque. Pensai che Bruce doveva essere affascinato da un testo molto – troppo simile – ai suoi: l’hard job, le rotaie, le highway, i cofani blu, i perdenti. E dalla sua voce da “andate tutti a quel paese”, come avrebbe detto Baricco di lui anni dopo, e “perfetta per finire”.

Dopo quell’ascolto presi ad ascoltare Nanci Griffith per un po’ di tempo. Mi sembrò – ma sono valutazioni che non sapevo fare allora ne adesso – un talento cristallino; mi ispirò sicuramente per il suo essere un’artista generosa, vicina al suo pubblico, ma soprattutto con tante storie “americane” da raccontare. Da “Furore” a Roth. Dal country a folk. Dall’amore alla fuga. Sempre con quel sorriso un po’ dimesso, un po’ fuori fuoco; quegli occhi grandi voraci di mondo. E quella voce che invece rendeva sacra ogni nota che accarezzava. Con la delicatezza e l’intensità di un cordoglio.

Ho scoperto solo ieri che lo scorso anno Nanci Griffith è morta. Da ieri, ho ripreso ad ascoltarla. Chissà che le sue canzoni non mi dicano altro, oltre a quello che mi raccontarono 30 anni fa. E quel cordoglio ora non sia solo malinconia.

Sentita questa che bella.

Tucson Train. C’è un dolore da bruciare, e un treno da prendere.

All’inizio c’è un fruscio; la punta di un vecchio giradischi.
Poi un ticchettio. Che evoca il ride di Max, ma non è.
Nel libretto di We Shall Overcome diceva che avremmo ascoltato -per quell’album- la musica “mentre viene fatta”. Succede anche qui.

C’è la solita mascella che scivola. Il bavero alzato da giovanotto. Le movenze goffe. Ma non con la chitarra al collo.
Poi c’è Patti, e il suo ciondolo. E Bruce che le sorride. E lei di rimando.
Gli occhi sempre più una fessura. Un anello che non avevo mai visto. 
Non c’è Max; ma c’è Charlie, e il suo hammond.
Un ritrovo di famiglia. In giardino, in salotto. In garage.
Una chitarra nuova, che suona con gioia.
E poi gli archi. Un tripudio infinito; un garrire di archi che avvolgono la musica.
E poi c’è un treno. 
E un “hard”. Intraducibile. Nemmeno con un paragrafo a sé. 
Un sole “hard” che brucerà ogni dolore.

Sentite che bella.

Anche, gli ultimi. Ma sopratutto i colpevoli.

No, non solo gli ultimi. Anche gli ultimi.
Faber cantava gli schifati, i rifiutati. 
Quelli colpiti da una damnatio memoriae che dovrebbe silenziare la nostra parte nera. E ovviamente non ci riesce mai.
Cantava quelli colpiti dal disgusto e dal disprezzo sociale. Dallo stigma di una società perbenista che li vorrebbe maledetti, silenziati, allontanati, morti -addirittura-: i carcerati, le puttane, i rom, gli omicidi, i pazzi, i traditori.
E i colpevoli. Colpevoli di essere -spesso fieramente, con la dignità che Faber riusciva a riconoscer loro- quello che sono.

«C’è ben poco merito nella virtù e ben poca colpa nell’errore.»

Quello che non sai

Solo da qualche giorno ho scoperto questa canzone di Roberto Vecchioni. Che sembra non sia stata scritta da lui ma da Lo Vecchio. Ai fini: è irrilevante. Ho tenuto in loop questa canzone per molto tempo perché  la trovo di una bellezza rara. Davvero rara.

Sembra che il tema sia: è possibile comunicare solo con chi riceve / accoglie / condivide / porta con sé una parte di noi. E con noi, una parte dell’altro. Si direbbe parli di incomunicabilità. Ma forse tratta della vera follia dell’amore. Dove la comunicazione – le parole che sono armi spuntate, e più le si ama più questo è evidente, – diventa un orpello, un atto aggiuntivo e non sarebbe un caso che fra gli amanti ci si capisca senza parlare. Perché le parole non servono, perché sono state già dette, e sono state già comprese. Credere di capirsi senza parlarsi è la follia dell’Amore. Che però avviene.

Nessuno, mai, riesce a dare l’esatta misura di ciò che pensa, di ciò che soffre, della necessità che lo incalza, e la parola umana è spesso come un pentolino di latta su cui andiamo battendo melodie da far ballare gli orsi mentre vorremmo intenerire le stelle.
— Gustave Flaubert

E quando ti cadrà lo sguardo chiaro
e tu non vorrai più darmi la mano
perché di un altro amore la festa proverai
io dovrò dirti quello che non sai…

tu te ne andrai nel battere dell’ora
tu te ne andrai così com’eri entrata
ma sarà dall’altra parte, ma sarà nell’altra stanza
ogni sorriso che sorriderai…

io dovrò dirti quello che non sai
e non ho avuto il tempo di spiegarti
e griderò una sera, se incontrerò una sera
tutto il vino e il dolore che mi darai…

e pregherò perché tu sia felice
socchiuderò la porta per guardarti
ma sarai nell’altra stanza, ma sarai nell’altra parte
non potrò dirti quello che non sai…

se quello che non sai ti può far male
bruciare un giorno solo dei tuoi giorni
perdonami del male, ricordati del bene
non posso dirti quello che non sai…

La durata è la forma delle cose.

 

  • 1988, Tunnel of Love Express Tour. E Street Band tirata a lucido, “The Horns of Love” a completarla. Bruce è la rockstar che si vede, che già il mondo conosce. il suo matrimonio con la prima -e adoratissima- moglie sta finendo. con Patti (la “rossa” nel video, e che gli darà tre figli negli anni seguenti) si sta saldando un rapporto forte, empatico.
  • 2016, Luglio. La stessa canzone, sul palco di Roma. La voce non è più la stessa (altri dicono migliore). Ma la loro sostanza, la medesima. E il feeling fra questi due che si scambiano occhi e silenzi ancora più forte, se possibile. I loro sguardi -su quel palco- sembrano una narrazione continua di cose non dette. Ma evidenti.
  • 2016, Ottobre. Esce la biografia di Bruce. Ed è lui stesso che racconta di un rapporto splendido, intenso, dolcissimo, a tratti lancinante, con sua moglie. Bruce stesso ci rivela come è lei a prendersi la responsabilità, più volte, di scendere nel buio della sua depressione, per aiutarlo.

    Perché “la durata è la forma delle cose”.

Bruce, la sua umanità, e quella luna sopra il Circo Massimo.

Bruce Springsteen, Roma

Bruce Springsteen, Roma

È arrivata al tramonto, nello zigzagare fra le mie colline. Mentre il sole s’infuocava a destra nell’ultimo sussulto del giorno, a sinistra il cielo si faceva di un rosa intenso. E io cercavo, nelle orecchie, il riverbero di tanta bellezza.
La malinconia è arrivata solo ieri. Non immediatamente dopo, perché con il gruppo abbiamo dovuto occuparci -inaspettatamente- di dove dormire, e cosa mangiare, e quando tornare; e non più tardi perché la stanchezza era tanta e tale da tenermi in una bolla senza tempo e senza suono.

È arrivata quarantotto ore dopo, la malinconia. Senza chiedere, si è seduta sul sedile accanto, mentre Mary contemplava le ultime luci del giorno, Billy cercava le note per la sua serenata, e la ragazza scalza beveva la propria birra. Come ogni volta, veniva a raccontarmi di qualcosa di bello. E di una esperienza che finiva. Ed è stata spesso la cifra di quanto questa mi aveva toccato, scosso. reso diverso. Di quanto mi aveva regalato. Ed anche questa volta è così: la bellezza scuote. E -come in nel caso di un concerto di Bruce– prosciuga.

Bruce. Fisico asciutto, lo stesso sorriso; stempiato, i capelli sempre più radi. Ha occhi come due fessure, Bruce. Si sono fatti più piccoli, e più stretti. Ma brillano che sembrano lacrime. Su New York City Serenade, su Indipendence Day, su Jungleland. Ed è un brivido lungo, intenso vedere in quell’uomo vivere una così forte emozione. Non saranno lacrime -facciamo sì, che quelle le abbia sognate davvero- ma la sua emozione è viva e vera. Dietro al suo sguardo che scruta ognuno di noi, e sembra davvero così: che scruti -ognuno- di noi, c’è una umanità così grande che la sua arte (lo stesso immensa) sembra solo un compendio, un mezzo -un’ascia, un martello, un punteruolo-, per la sua espressione.

La sua umanità. Il suo senso di giustizia. La sua fede laica nell’umano. Si rendono vive nella ferocia del perdente con cui intona alta e forte, e inaspettata, The Ghost of Tom Joad; il ciglio che si alza, il canino che si scopre; gli occhi che cercano la concentrazione nel buio. E Tom che, improvvisamente, sotto quello spicchio di luna che pende, appare come un angelo nero e rassicurante. Rassicurante per la madre, rassicurante per ogni uomo che cerca giustizia.

Oppure nel saluto (“Vi amo!”), nel saluto gigione; eppure dolcissimo e vero. Totalmente vero. Non al pubblico. Sessantamila persone che non erano un pubblico. Erano il “suo” pubblico. Quello con il quale gioca, si emoziona, si diverte e completamente si concede, e tremendamente si impegna con l’unico scopo di divertire, e scacciare ogni pensiero di morte (e a Roma, più di altri luoghi, in questo periodo, motivi per averne ce ne erano molti). Tutta l’umanità di Bruce c’era nell’abbraccio con Jake dopo l’assolo di Jungleland (e a me viene in mente Clarence: “Quell’assolo ha il suono dell’amore”), oppure nel pollice alzato verso Roy dopo l’intro di Point Blank; oppure nel gioco continuo sul palco con i suoi fan su Dancing in the Dark. Oppure nel duetto emozionante con Patti su Tougher than the Rest: che, Dio, come si guardano… e quel -nessun- pudore mi ha fatto pensare a quanto si trovassero bene in mezzo a noi. “Una questione di famiglia”… si è già detto. Ma è pur vero che ogni giorno, ogni anno, ogni concerto in più, questa questione si fa sempre più intensa, più intima. Più bella. Le rughe che si fanno più profonde, e le mani che si fanno più nodose, e i capelli di cenere aggiungono, non tolgono, a questa grandezza. A questa intimità. Oppure nelle immagini che ancora danzano sul fondale, di Clarence e Danny, perché la riconoscenza e l’amicizia non sono un fatto piccolo, ma vanno celebrate di continuo. Sopratutto quando le ritroviamo essere un pezzo di noi.

L’umanità di Bruce è nei cori di The River, sussurrati per lasciarli al suo pubblico; nel “fantastico” dirigerli su Indipendence Day, appagato dalla nostra partecipazione, mentre il tramonto addolcisce il calore bruciante della giornata e il circo si riempiva di luci. Di luci e di anime: quelle che, per la prima volta, stavano conoscendo la sua bellezza (E… “Grazie. Senza di te non sarei mai stato parte di tutto questo”. Non è un riconoscimento. È la gioia di aver reso felice qualcuno. Qualcuno ancora. Insieme a te).

La notte continuerà, la festa si farà grande, e Bruce sarà per noi quasi 4 ore ancora. Riempirà il cuore degli innamorati con Drive All Night gemmandola di una struggente Dream Baby Dream, fino a farci saltare tutti -tutti!- della sofferta potenza di Born in the USA. Senza sosta, senza riprendere quasi mai fiato. Quattro ore scintillanti: di pensieri, di divertimento, di gioia, di partecipazione. Di comunione laica. Di commozione profonda e di musica.

E quando infine intonerà Thunder Road – l’unico inno da difendere con le armi che gli sono proprie: l’armonica alla bocca e la chitarra al collo – quelle sopracciglia si alzeranno su quegli occhi sempre più piccoli e un po’ stanchi, per guidare ancora il nostro coro. Mentre lo stadio si accende di luce e ondeggia piano sul ritornello finale, e la musica drappeggia un velo di tristezza su tutto il Circo Massimo, incrocio gli occhi della ragazza (“Sono la tua Mary”, diceva il suo cartello) che mi sussurra, composta, in lacrime e felice, un piccolo “It’s time…”. Come si può fare con un fratello.

E forse lì -per quel tempo- lo siamo davvero stati.

Long walk home.

Questo video. Mi sono sempre chiesto perché Bruce sia solo. Long Walk Home, la lunga strada verso casa. Canta di tornare a casa. Ma nel video non ci sono affetti. C’è lui, la sua chitarra, la sua voce, poche comparse. Una giostra. Ho pensato che Bruce – che non lascia mai niente al caso – volesse dirci qualcosa di più.
No, non credo che canti la desolazione. Non credo che canti il dolore intorno alla possibilità di non trovare nessuno.
Lui dice: non aspettarmi, amore, non aspettarmi. Forse, ecco, vuole dirci che trovare la propria casa è un gesto, un evento intimo, del cuore: non le quattro mura, ma gli affetti e quelli che decidiamo di chiamare tali (o che ri-conosciamo essere tali), l’odore delle cose buone, occhi in cui è possibile riposare, senza affanno. Accettazione.
E per questo è un percorso da fare nell’unico modo possibile: da soli, in mezzo alle proprie emozioni.

Purple rain

Eccolo. Prima la traccia da scaricare. Poi il video ufficiale di un fan, che non poteva mancare.
Ed è incredibile. Perché suona come una canzone di Bruce: per la band, per la sua voce sporca e profonda. Per le dita veloci e nodose di Nils. Per il suo assolo piratesco; per Bruce che lo incita mentre accarezza altre corde con il plettro.
Così non riesco a smettere di ascoltarla.
Stamattina mi chiedevo come potessi spiegare la Bellezza a una persona che amo. Bellezza. Ed eccola qua. Quella che mi è stata donata, con gli occhi che mi sono stati donati, e quelli che ho donato. Occhi per guardare e pelle per sentire. Emozioni per vivere.
Questa è bellezza, un respiro profondo.
Ascoltatela. E godetevi quella mancanza improvvisa, negli ultimi arpeggi. Perché succede così per la canzoni eterne: che quando finiscono, ti hanno già scavato dentro un vuoto di malinconia e di assenza. Di profonda Bellezza. In appena in 6 minuti.
E tu te ne accorgi solo quando sei arrivato alle ultime note. E vale poco che si possa fare “riavvolgi”.
Manchi Bruce, manchi tanto.

Non è solo rock’n’roll. Non lo è mai stato

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Bruce e Clarence.

E una volta l’aveva anche detto: “non è solo rock and roll”. Che aggiunge, non toglie nulla alla sua decisione di questi giorni. Già perché è proprio questo il punto: non è mai stato solo musica, solo spettacolo, solo un concerto. E’ stata sempre passione, relazioni, cuore, e -spesso- anche politica, nel senso più alto e migliore del termine. Ed è così che Bruce motiva, anche questa volta, la sua scelta tendendola fine alle estreme conseguenze.

Si dice che abbia perso un po’ di smalto artistico (eccetto poche cose, io adoro la sua ultima produzione, secondo me coraggiosa e inspiratissima) ma quello che sicuramente è rimasto (bello, vivo, vero) è l’uomo. coerente, lineare.
Con la possibilità di guardare in faccia la sua storia senza nessuna sbavatura: così è capace di essere grande e fanciullo, capace di emozionarsi solo come -senza sembrare blasfemo nel paragone- persone della politica Radicale sanno fare.
Bruce baciava in bocca Clarence (il suo amico grande e nero) nei concerti dell’80 (dando a questo gesto una serie infinita di significati); metteva coppie omosessuali nel video della sua più bella (fino ad allora) canzone d’amore; parlava dell’abuso di armi e dell’abuso della forza spropositata della polizia beccandosi gli insulti dei suoi concittadini (non che adesso, annullando un concerto, non ne ottenga); cantava dell’essere neri e poveri, dell’essere migranti e poveri: come lui stesso dice, ha misurato palmo a palmo la distanza fra la realtà e il sogno americano.
Bruce è un uomo che, nelle comunicazioni ufficiali, non ha nessun imbarazzo a utilizzare termini come “fratelli” e “sorelle”; e nel film che racconta la sua vita, di scambiare un braccialetto come segno di ‘brotherhood’ con una fan, come per farlo con ognuno.

Tutto quello che c’era da dire sulla questione, l’ha scritta Lorenza.
Io sono fiero di lui. Della sua coerenza. Della sua capacità di stupire e stupirmi ogni volta. Del suo restare piccolo (e spesso teneramente bambino) anche se è un gigante. Alla sua età può ormai permettere di prendere posizione, di dire la sua e -giustamente- di parlare ai suoi concittadini e al mondo.
Lo ha sempre fatto: con una chitarra in mano e la sua band. Adesso decide di farlo in modo diverso e (forse) più efficace. i suoi fan avranno capito: sanno che questa è solo l’ultimo atto -e non l’ultimo- della sua grandezza.

Anime salve. Anime uniche

Ogni volta che mi sento come mi sento in questi giorni, penso a questa canzone. Devo a Laura di avermela fatta conoscere.
Anime Salve.
Chi conosce Faber meglio di me, sapranno che il brano parla di anime solitarie, nella precisa accezione etimologica dei termini. Io ho deciso che no. Anime Salve parla del concetto di salvezza, ma in chiave del tutto laica: lasciare la vita, stare per farlo, abbandonandosi all’idea di aver fatto tutto il possibile. Aver salutato chi si doveva, come si doveva. Aver detto “Ti voglio bene” alle persone ai cui lo vogliamo; aver speso la nostra vita nel fare cioè che si sentiva di dover fare, senza sprecare tempo. O farlo minimante. Aver fatto la propria vita, aver ricercato la propria strada.
Non quella che gli altri ci mettono addosso.

Forse solitudine e salvezza significano la stessa cosa, a ben guardare. La propria salvezza passa attraverso la propria solitudine: di concepire la propria unicità, in cui siamo soli. E perseguirla. Al massimo, dal nostro prossimo, possiamo chiedere compagnia. Compagnia nel viaggio della vita, compagnia viva e calda – ma non inopportuna – nei parole, nei gesti. Nelle emozioni.

E, infine, la disperata speranza che quella bella compagnia, che il restare nel cuore degli altri anche dopo la nostra morte, è tutto ciò che possiamo per rimanere.

Ci manchi, Faber

Oggi, 13 anni fa, moriva Fabrizio De Andrè. Sono sicuro che quello che ci ha regalato non è, ancora adesso, completamente comprensibile, nè compreso. Quel che è certo è che, almeno a me, manca. Manca moltissimo.

Mi chiedo, seriamente, se avrebbe deriso più i costumi facili di Berlusconi o i moralisti scandalizzati dell’ultima ora…