Etichettato: emozione

Quando i giganti si mettono di lato.

Che magia.
Solo il Prof poteva. Solo il Prof poteva mettere così a disposizione la sua arte.
Vecchioni e Alfa interpretano “Sogna ragazzo sogna”. Davvero sono l’inizio e la fine: lui cantautore immenso piccolo e dolce, lui imberbe ragazzo alle prime esperienze. Iniziano, e Alfa, al primo cambio, infila gli occhi nella figura di Roberto come si vede qui: con tutta la gratitudine e l’amore che si può per un maestro. Il duetto continua; non è particolarmente efficace: c’è questo cantare cantilenante di Alfa che suona addirittura goffo.

Poi arriva la magia, proprio alla fine, viene annunciata da un sorriso sornione, sui versi:

“[…] Manca solo un verso
a quella poesia,
puoi finirla tu”


E lascia Alfa rappare dei bellissimi nuovi versi, che completano magnificamente la canzone, e quella poesia: un intarsio perfetto incastonato in un quadro già preziossimo.
Roberto si mette di lato, stringe i pugni e chiude gli occhi. E lì che ascolta.
Che sembra dire, in silenzio: “Ascoltatelo anche voi”.
Riconosce Alfa, la giovinezza, e l’arte del suo collega. Mettendo a disposizione la propria.
E’ un messaggio dolce e toccante. Che emoziona.

(Ho ascoltato tantissime volte questa canzone. E tantissime volte – da ragazzo – mi sono chiesto come quella poesia potesse concludersi. Senza mai avere il coraggio di scrivere nessun verso).

The Infinite

Lo scorso anno Patti Smith, nel suo concerto a Roma, ha declamato L’Infinito di Leopardi, a significare il rapporto stretto e profondo con la regione Marche.

Ci sono tantissime traduzioni in inglese di questa meravigliosa poesia. Patti Smith ha usato quela di Roland Rogers. Eccola:

This hermit hill was always dear to me,
with its hedgerow hiding
the last horizon in so many places.
But as I sit and gaze and conjure
unending spaces,
unearthly silences,
and utter sillness,
my heart almost stops in fear.
When… storming through the leaves
the wind brings me a voice to set against
the infinite silence; and eternity
and seasons past, are summoned
to breathe in this moment and sound.
And my thoughts drown in this vastness,
where to founder is sweet and gentle in this sea.

The Wrecking Band. Musica ed emozioni vicini alla luna.

Diego Mercuri e la Wrecking Band
Diego Mercuri e la Wrecking Band

Ad un tratto è apparsa la luna a salutare Diego e i ragazzi. Poi è salita fin nel nero della notte per essere il segno del buon auspicio che tutti gli auguriamo. Dal terrazzo di Montefalcone, con una veduta mozzafiato sulla valle, credo non poteva esserci luogo migliore per festeggiare i 10 anni della Wrecking Band. Ormai è una macchina rodata che suona le proprie canzoni e le proprie cover con precisione, con gusto, divertendosi.

La prima volta che ho ascoltato Diego era un agosto di una decina di anni fa. Era issato, da solo con la sua chitarra, sopra ad un palco al lato di un campo da calcetto e di non so quanti bimbi scalmanati completamente disinteressati a lui e alla sua musica. Eravamo in pochi ad ascoltarlo: quelli che cercavano musica di Bruce per lenire la propria astinenza.

Ora ha un proprio pubblico, ha affinato la sua tecnica, ha 4 moschettieri (forse 5) con cui condivide ed esprime la propria arte, ha scritto canzoni bellissime che lo narrano e in cui ha messo il cuore, porta la gioia e il dolore della musica a chi lo ascolta. Ha fatto molta strada, ne farà tanta altra, senza perdere nulla della semplicità di cui è capace.

Stasera ha cantato una versione da brividi di The Sound of Silence che spero si possa trovare presto online. C’è dentro tutto il suo genio, la sua arte, e questa sua voce che si trasforma davanti ad un microfono: piena della capacità di emozionare.

Baraye

Per la libertà.

Per il desiderio di ballare nelle strade.
Per il timore di baciarsi in pubblico.
Per mia sorella, per tua sorella, per le nostre sorelle.
Per cambiare quelle menti corrotte.
Per la vergogna della povertà.
Per l’augurio di una vita normale.
Per i bambini costretti a cercare nella spazzatura, e per i loro sogni.
Per questa economia di regime.
Per quest’aria inquinata.
Per la via Valiahd e i suoi alberi consumati.
Per l’estinzione del Pirooz.
Per i cani randagi banditi.
Per questo singhiozzare inconsolabile.
Per non ripetere più questo momento.
Per un viso sorridente.
Per gli studenti, per il loro futuro.
Per questo “paradiso” forzato.
Per gli intellettuali imprigionati.
Per i bambini afghani.
Per tutti questi, troppi, “per”.
Per tutti questi slogan senza senso.
Per il crollo di questi fragili edifici.
Per sentirsi in pace.
Per l’alba dopo queste notti scure.
Per gli psicofarmaci e l’insonnia.
Per l’uomo, la patria, la prosperità.
Per quella ragazza che desiderava essere un ragazzo.
Per la donna, la vita, la libertà.

***

Shervin Hajiaghapour è stato arrestato per questa canzone, poi liberato su cauzione.

La traduzione è mia, dall’inglese.

Chain of our sins: il racconto di Bruce.

Sign of brotherhood. Chi ama Bruce sa che di quel “chain of our sins” è intrisa tutta la sua musica. Tutta la sua arte. Tutta la sua storia. Tutta la sua vita.
C’è quel senso di redenzione e sconfitta, di breve successo e bruciante malinconia in ogni nota: la misura non solo della distanza dal sogno americano (come disse una volta) ma la distanza di quello che è, è voluto profondamente essere, scegliendo differenziazione, rottura, indipendenza. La sua distanza dal gorgo “dei peccati”. Un gorgo dove l’amore di suo padre, e per suo padre, era la cifra della difficoltà e del dolore. E’ stato un lungo percorso rendersene conto.

Potessi, gli direi che gli voglio bene. Potessi lo abbraccerei quando raccontando quello che racconta, si emoziona. E piange.

Questo è l’intro a Long Time Comin’, live al Kerr Theatre, a New York, NY nel Luglio 2018. Questo il testo trascritto in inglese.

“Erano gli ultimi giorni della prima gravidanza di Patti. E ricevo una visita a sorpresa da parte di mio padre, a casa mia, a Los Angeles. Aveva guidato 500 miglia, senza preavviso, per bussare alla mia porta. Questo è il suo stile. Quindi, alle 11:00, ci sediamo nella sala da pranzo illuminata dal sole e ci prendiamo delle birre del mattino; questo è il suo stile. Questa è la colazione dei campioni di mio padre.

Mio padre, che non è stato mai un uomo loquace, giusto, ad un tratto dice: “Sei stato molto buono con noi”. Annuisco, era la verità, e lui continua: “Ed io non sono stato molto buono con te”. La stanza mi sembrò si fermasse. Rimasi shockato: l’inammissibile veniva per la prima volta riconosciuto [the unacknowledgeable was being acknowledged]. E se non lo avessi saputo, avrei giurato che mi stesse chiedendo scusa in qualche modo; così era.

Quindi negli ultimi giorni prima che diventassi padre, mio padre veniva a trovarmi per avvertirmi degli errori che aveva commesso e per avvertirmi di non farli con i miei figli. Liberarli dalla catena dei nostri peccati, di mio padre e miei e dei nostri padri prima, affinché siano liberi, di fare le proprie scelte e di vivere la propria vita. Possiamo essere fantasmi o essere antenati nella vita dei nostri figli. O poniamo i nostri errori, i nostri fardelli su di loro e li perseguitiamo, oppure li aiutiamo a deporre quei vecchi fardelli e li liberiamo dalla catena del nostro comportamento imperfetto.

E come antenati, camminiamo al loro fianco e li aiutiamo a trovare la propria strada e un po’ di trascendenza. Mio padre, quel giorno, mi chiedeva un ruolo ancestrale nella mia vita dopo essere stato un fantasma per molto tempo. Voleva che scrivessi una nuova fine alla nostra relazione e voleva che fossi pronto per il nuovo inizio che stavo per vivere. È stato il momento più bello della mia vita con mio padre, ed era tutto ciò di cui avevo bisogno

Poi è iniziata Long time comin’:

[…] It’s been a long time comin’, my dear
it’s been a long time comin’
but now it’s here

Well my daddy he was just a stranger
lived in a hotel downtown
when I was a kid he was just somebody
somebody I’d see around
somebody I’d see around

Now down below and pullin’ on my shirt
I got some kids of my own
well if I had one wish
in this god forsaken world, kids
it’d be that your mistakes would be your own
yeah your sins would be your own […]

Nanci Griffith, e quegli occhi voraci di mondo

Ho conosciuto Nanci Griffith in una delle tante peregrinazioni intorno alle cover cantate da Bruce. A decine: un mostra straordinario per omaggiare colleghi famosissimi, o altri meno conosciuti. E del resto, io non ho mai avuto molti altri modi per conoscere altri artisti.

Bruce aveva provato “Gulf Coast Highway” di Nanci in un sound check nel Tunnel Of Love tour. Credo non la canterà mai ufficialmente; ma ci sono bootleg dove è possibile ascoltare quella performance. C’è Patti e c’è questo “La la la” che scioglie le spalle, che cerca di ridisegnare leggerezze. Anche se è un sound check, anche se è del tutto informale. E c’è questa strofa arpeggiata con la chitarra che somiglia vagamente a “My beautiful reward”.

Mi piacque. Pensai che Bruce doveva essere affascinato da un testo molto – troppo simile – ai suoi: l’hard job, le rotaie, le highway, i cofani blu, i perdenti. E dalla sua voce da “andate tutti a quel paese”, come avrebbe detto Baricco di lui anni dopo, e “perfetta per finire”.

Dopo quell’ascolto presi ad ascoltare Nanci Griffith per un po’ di tempo. Mi sembrò – ma sono valutazioni che non sapevo fare allora ne adesso – un talento cristallino; mi ispirò sicuramente per il suo essere un’artista generosa, vicina al suo pubblico, ma soprattutto con tante storie “americane” da raccontare. Da “Furore” a Roth. Dal country a folk. Dall’amore alla fuga. Sempre con quel sorriso un po’ dimesso, un po’ fuori fuoco; quegli occhi grandi voraci di mondo. E quella voce che invece rendeva sacra ogni nota che accarezzava. Con la delicatezza e l’intensità di un cordoglio.

Ho scoperto solo ieri che lo scorso anno Nanci Griffith è morta. Da ieri, ho ripreso ad ascoltarla. Chissà che le sue canzoni non mi dicano altro, oltre a quello che mi raccontarono 30 anni fa. E quel cordoglio ora non sia solo malinconia.

Sentita questa che bella.

Genesio di Roma, attore e mimo.

Licio Genesio aveva 19 anni quando fu martirizzato sotto Diocleziano. Nell’iconografia Cristiana, il Santo è raffigurato giovanissimo qual era, a volte anche un po’ punk, con in mano uno strumento musicale o una maschera.


Genesio di Roma era un attore e un mimo. Ho conosciuto la sua vita in una domenica di fine estate nella piazza di San Ginesio, proprio quando le ombre si allungano e le rondini cantano i loro acuti. Sotto la sua formella intagliata sulla facciata della Collegiata del paese, la compagnia Teatro A Canone, in uno stile picaresco, proponeva la sua storia.

Li vedete -magnifici- nelle foto.

A metà spettacolo ci hanno rivelato che quella era una scena improvvisata: il cortile dove si sarebbero dovuti esibire era (maldestramente) occupato. Avevano quindi voluto essere lì, in piazza, mettendo insieme un pubblico anche di curiosi e di circostanza. A metà spettacolo, quello che sembrava essere il capo comico -e interpretava Genesio-, copione alla mano, ha chiesto che ci avvicinassimo al piccolo palco, e ha iniziato a raccontare a braccio la storia.
Genesio attore. Genesio pagano. Genesio che accetta di mettere in scena il battesimo cristiano: non per celebrare il gesto sacro, ma per farne scherno, come richiesto da Diocleziano stesso.


Genesio che inizia a frequentare le comunità cristiane delle catacombe per conoscerle meglio ed entrare maggiormente nelle parte. Genesio -il racconto si perde fra la leggenda e l’agiografia- che, proprio durante la prima del suo spettacolo, ha una visione e si converte; Genesio che riferisce la propria fede all’imperatore stesso; Genesio che viene fatto decapitare seduta stante. Genesio che viene rinnegato dai suoi amici e dai suoi commedianti, come era successo per Cristo.


In una situazione Pirandelliana, dove attori e pubblico si intrecciano, creando un unico tessuto di emozioni, mi è sembrato un momento perfetto, nella sua precarietà. Probabilmente fossimo stati nel cortile iniziale, non avrei goduto di quella commozione, di quella vicinanza e di quella prossimità.

Diario di una ragazza albanese.

Lireta non cede, di Lireta Katiaj
Lireta non cede, di Lireta Katiaj

“Ringrazia le tue cicatrici che ti stanno salvando la vita”

L’ultimo regalo che ho ricevuto dal Piccolo museo del diario è la conoscenza di questa storia: Lireta, ha la mia età, è – come nell’intuizione di Mario Perrotta – una nuova Medea che sfida gli eventi, del mare e dell’Albania degli anni ’80, e il fato per migliorare la sua vita e quella di sua figlia.

E’ una Medea “donna qualunque”, e anche “straniera”, e che decide di farsi “pubblica”, con il suo portato di incredibile dolore e di tantissima speranza. Nel suo diario, che si dipana fra l’Albania, il mare e l’Italia, la incontriamo giovanissima, figlia di una madre non abbastanza protettiva di un padre violento. Egli ha organizzato per lei un matrimonio che Lireta rifiuterà tenacemente con tutte le sue forze: questo la porterà a vivere esperienze di dolore, angoscia, solitudine; ma anche di maternità, salvezza, amicizia, amore.

Al solito, il contatto con un diario è qualcosa di prezioso. E’ la prossimità con la pelle, con il fiato di chi l’ha scritto, di chi ha infilato parole come una collana di perle per rendere disponibile il proprio vissuto. Per essere testimonianza, in primis a se stessi.
Nell’editarlo, non si sono fatte correzioni che stravolgessero il testo: l’italiano con cui è scritto è quella di una ragazza immigrata che ha imparato la lingua prima alla Tv, poi nell’esercizio giornaliero delle relazioni. E’ qualcosa di autentico, come la sua storia – che crepita del realismo di giorni terribili e di giorni dolcissimi – che evoca le emigrazioni dei giorni nostri. Varrebbe la pena leggerlo, anche solo per capirne – con le dovute differenze – qualcosa di più.

“[…] Quando ti trovi in mezzo al mare di notte, con i tuoi figli a bordo di un gommone, cambi idea immediatamente di quello che hai appena fatto. Ti senti in colpa e non puoi fare niente. Speri solo di arrivare a toccare terra e basta. Non smetti mai di pregare e guardare le stelle, non smetti mai di fissare il volto della tua bimba per capire se respira, la devi tenere stretta a te per sentire il suo cuoricino che batte. Mi sono odiata così tanto quella notte che mi facevo schifo […]”.

Di carcere, attese, privazioni. E desideri.

Il carcere di Ascoli Piceno.

Il casa circondariale di Marino del Tronto ad Ascoli Piceno.

Enzo sfila velocemente dal cancello, con l’anta che si sta chiudendo. “Fai attenzione -dice la guardia, in un rimprovero bonario- queste porte non si bloccano se incontrano qualcuno”. Già: questi accessi non sono fatti per gli uomini. Ma per contenerli. Non aprono varchi, ma impongono limiti.
Inizia così, con questa considerazione banale la nostra visita al carcere di Marino del Tronto, ad Ascoli Piceno. E’ un sabato di metà Ottobre, una giornata di grigio smunto: i raggi del sole filtrano da dietro le nubi basse e lattiginose. La luce è una lama invisibile che ferisce comunque gli occhi.
Braccia che sporgono dalle sbarre. E’ la prima immagine del carcere: addirittura iconica, a cui dovrei essere preparato. Ma non lo sono. Il verde dei blindati, le braccia nude, il bianco grezzo dell’intonaco, il muro circolare che si avvita come in un girone dantesco: e il nodo che mi serra la gola. Guardo i miei compagni: non sono l’unico ad essere smarrito ed incerto; la premurosa accoglienza nel suo studio da parte della direttrice non è bastata.

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Bruce, la sua umanità, e quella luna sopra il Circo Massimo.

Bruce Springsteen, Roma

Bruce Springsteen, Roma

È arrivata al tramonto, nello zigzagare fra le mie colline. Mentre il sole s’infuocava a destra nell’ultimo sussulto del giorno, a sinistra il cielo si faceva di un rosa intenso. E io cercavo, nelle orecchie, il riverbero di tanta bellezza.
La malinconia è arrivata solo ieri. Non immediatamente dopo, perché con il gruppo abbiamo dovuto occuparci -inaspettatamente- di dove dormire, e cosa mangiare, e quando tornare; e non più tardi perché la stanchezza era tanta e tale da tenermi in una bolla senza tempo e senza suono.

È arrivata quarantotto ore dopo, la malinconia. Senza chiedere, si è seduta sul sedile accanto, mentre Mary contemplava le ultime luci del giorno, Billy cercava le note per la sua serenata, e la ragazza scalza beveva la propria birra. Come ogni volta, veniva a raccontarmi di qualcosa di bello. E di una esperienza che finiva. Ed è stata spesso la cifra di quanto questa mi aveva toccato, scosso. reso diverso. Di quanto mi aveva regalato. Ed anche questa volta è così: la bellezza scuote. E -come in nel caso di un concerto di Bruce– prosciuga.

Bruce. Fisico asciutto, lo stesso sorriso; stempiato, i capelli sempre più radi. Ha occhi come due fessure, Bruce. Si sono fatti più piccoli, e più stretti. Ma brillano che sembrano lacrime. Su New York City Serenade, su Indipendence Day, su Jungleland. Ed è un brivido lungo, intenso vedere in quell’uomo vivere una così forte emozione. Non saranno lacrime -facciamo sì, che quelle le abbia sognate davvero- ma la sua emozione è viva e vera. Dietro al suo sguardo che scruta ognuno di noi, e sembra davvero così: che scruti -ognuno- di noi, c’è una umanità così grande che la sua arte (lo stesso immensa) sembra solo un compendio, un mezzo -un’ascia, un martello, un punteruolo-, per la sua espressione.

La sua umanità. Il suo senso di giustizia. La sua fede laica nell’umano. Si rendono vive nella ferocia del perdente con cui intona alta e forte, e inaspettata, The Ghost of Tom Joad; il ciglio che si alza, il canino che si scopre; gli occhi che cercano la concentrazione nel buio. E Tom che, improvvisamente, sotto quello spicchio di luna che pende, appare come un angelo nero e rassicurante. Rassicurante per la madre, rassicurante per ogni uomo che cerca giustizia.

Oppure nel saluto (“Vi amo!”), nel saluto gigione; eppure dolcissimo e vero. Totalmente vero. Non al pubblico. Sessantamila persone che non erano un pubblico. Erano il “suo” pubblico. Quello con il quale gioca, si emoziona, si diverte e completamente si concede, e tremendamente si impegna con l’unico scopo di divertire, e scacciare ogni pensiero di morte (e a Roma, più di altri luoghi, in questo periodo, motivi per averne ce ne erano molti). Tutta l’umanità di Bruce c’era nell’abbraccio con Jake dopo l’assolo di Jungleland (e a me viene in mente Clarence: “Quell’assolo ha il suono dell’amore”), oppure nel pollice alzato verso Roy dopo l’intro di Point Blank; oppure nel gioco continuo sul palco con i suoi fan su Dancing in the Dark. Oppure nel duetto emozionante con Patti su Tougher than the Rest: che, Dio, come si guardano… e quel -nessun- pudore mi ha fatto pensare a quanto si trovassero bene in mezzo a noi. “Una questione di famiglia”… si è già detto. Ma è pur vero che ogni giorno, ogni anno, ogni concerto in più, questa questione si fa sempre più intensa, più intima. Più bella. Le rughe che si fanno più profonde, e le mani che si fanno più nodose, e i capelli di cenere aggiungono, non tolgono, a questa grandezza. A questa intimità. Oppure nelle immagini che ancora danzano sul fondale, di Clarence e Danny, perché la riconoscenza e l’amicizia non sono un fatto piccolo, ma vanno celebrate di continuo. Sopratutto quando le ritroviamo essere un pezzo di noi.

L’umanità di Bruce è nei cori di The River, sussurrati per lasciarli al suo pubblico; nel “fantastico” dirigerli su Indipendence Day, appagato dalla nostra partecipazione, mentre il tramonto addolcisce il calore bruciante della giornata e il circo si riempiva di luci. Di luci e di anime: quelle che, per la prima volta, stavano conoscendo la sua bellezza (E… “Grazie. Senza di te non sarei mai stato parte di tutto questo”. Non è un riconoscimento. È la gioia di aver reso felice qualcuno. Qualcuno ancora. Insieme a te).

La notte continuerà, la festa si farà grande, e Bruce sarà per noi quasi 4 ore ancora. Riempirà il cuore degli innamorati con Drive All Night gemmandola di una struggente Dream Baby Dream, fino a farci saltare tutti -tutti!- della sofferta potenza di Born in the USA. Senza sosta, senza riprendere quasi mai fiato. Quattro ore scintillanti: di pensieri, di divertimento, di gioia, di partecipazione. Di comunione laica. Di commozione profonda e di musica.

E quando infine intonerà Thunder Road – l’unico inno da difendere con le armi che gli sono proprie: l’armonica alla bocca e la chitarra al collo – quelle sopracciglia si alzeranno su quegli occhi sempre più piccoli e un po’ stanchi, per guidare ancora il nostro coro. Mentre lo stadio si accende di luce e ondeggia piano sul ritornello finale, e la musica drappeggia un velo di tristezza su tutto il Circo Massimo, incrocio gli occhi della ragazza (“Sono la tua Mary”, diceva il suo cartello) che mi sussurra, composta, in lacrime e felice, un piccolo “It’s time…”. Come si può fare con un fratello.

E forse lì -per quel tempo- lo siamo davvero stati.

Purple rain

Eccolo. Prima la traccia da scaricare. Poi il video ufficiale di un fan, che non poteva mancare.
Ed è incredibile. Perché suona come una canzone di Bruce: per la band, per la sua voce sporca e profonda. Per le dita veloci e nodose di Nils. Per il suo assolo piratesco; per Bruce che lo incita mentre accarezza altre corde con il plettro.
Così non riesco a smettere di ascoltarla.
Stamattina mi chiedevo come potessi spiegare la Bellezza a una persona che amo. Bellezza. Ed eccola qua. Quella che mi è stata donata, con gli occhi che mi sono stati donati, e quelli che ho donato. Occhi per guardare e pelle per sentire. Emozioni per vivere.
Questa è bellezza, un respiro profondo.
Ascoltatela. E godetevi quella mancanza improvvisa, negli ultimi arpeggi. Perché succede così per la canzoni eterne: che quando finiscono, ti hanno già scavato dentro un vuoto di malinconia e di assenza. Di profonda Bellezza. In appena in 6 minuti.
E tu te ne accorgi solo quando sei arrivato alle ultime note. E vale poco che si possa fare “riavvolgi”.
Manchi Bruce, manchi tanto.

Paula Cooper, assassina della mia età.

Laura Cooper

La persona della del delitto non è quella della pena

 

C’è qualcosa che mi trafigge nella tua morte.
Qualcosa di crudele e tremendo. Come una domanda a cui non c’è risposta.
Non è la tua foto da ragazza, da assassina della mia età. Non è il sonno inquieto e scosso che feci nei giorni a seguire mentre rimestavo, dentro di me, la tua storia terribile. Non è l’incubo del coltello, della violenza, della signora anziana trucidata per poco più di niente.

No. E’ che mi sembra di aver perso qualcosa di me. Del mio io-bambino. Il germe della mia coscienza sociale, l’embrione di quel senso di speranza e riscatto che tengo insieme -a fatica- attraverso le stagioni della vita. La traccia di me, il filo rosso: da quando usavo l’elastico per tenere i libri, allo sbiancare dei capelli.
Sono i primi contatti con il Partito Radicale, la mia consapevolezza civile, politica, pubblica che si forma. Mio padre che mi parla di te, e io che ti sento subito sorella. La sorella che uccide. La sorella che aveva ucciso, e a cui consegnare una seconda possibilità.

Affiorano i ricordi. Un articolo al liceo sul giornalino scolastico. La pena di morte. Il fine pena mai. Il tema della redenzione e gli strumenti per farlo. La prima empatia che ferisce; i primi, in preda all’emozione, interventi pubblici. E, nel corso degli anni, le poche notizie, stralci di giornali, gli opuscoli sgualciti di Nessuno Tocchi Caino. Ad ogni tua foto, dove ti vedo più grande, è come ricevere la conferma della bontà del mio percorso. Poi Internet, in cui di tanto in tanto ti cerco. Il lavoro di cuoca. Infine la tua foto di donna libera, con quel gran sorriso, e l’ombretto azzurro e delicato. Ventotto anni dopo. Ventotto. Anni. Dopo.

Oggi mi accorgo che senza di te non sarei stato quello che sono. O forse solo un po’. Oggi, vorrei che tu potessi leggere queste mie parole. Quando invece posso solo piangerti.

paula-cooper-post

Un giorno ci rivedremo

Un giorno ci rivedremo.

Un giorno ci rivedremo.


A D.

Un giorno ci rivedremo.
Eppure tu riassumerai sempre la mia vita,
come se fossi l’unico,
come se fossi l’ultimo.
Come una gazza avrò infilato il becco
in mille tronchi,
a cercare il mio rifugio migliore.

E quando anch’io volerò lassù,
cercandoti di stella in stella,
ci rivedremo.

Sentirò la vibrazione del tuo cuore
che incrinerà l’involucro perfetto
del mio mondo.
Così colmerò il vuoto del tuo odore,
berremo il nostro vino,
e sarà festa.
Mi regalerai di nuovo il tuo sorriso,
e vedrò il tuo volto in una luce
brillare più forte del dolore.

E allora nemmeno la morte,
così debole e distante,
ci potrà separare;
quando finalmente resterò con te,
papà.


Inspirata da Irene, che ringrazio tantissimo.

Asfalto

Immagine

É rimasto
un muro sberciato,
e il sorriso
delle finestre
è uno sbrego di ruggine.

Mutilati i gradini
che salivano
al parco, sotto la collina;
e il viottolo
un intrico di rovi.

Né quel casolare;
né il tiglio grande,
tana per bimbi ed uccelli;
affiora solo un moncone
fra l’erba.

É rimasto
il buzzo
in cui si perdeva
il pallone;
e un palmo di asfalto:
dove l’oggi non entra.

Né sta.