Categoria: Occasioni

Chain of our sins: il racconto di Bruce.

Sign of brotherhood. Chi ama Bruce sa che di quel “chain of our sins” è intrisa tutta la sua musica. Tutta la sua arte. Tutta la sua storia. Tutta la sua vita.
C’è quel senso di redenzione e sconfitta, di breve successo e bruciante malinconia in ogni nota: la misura non solo della distanza dal sogno americano (come disse una volta) ma la distanza di quello che è, è voluto profondamente essere, scegliendo differenziazione, rottura, indipendenza. La sua distanza dal gorgo “dei peccati”. Un gorgo dove l’amore di suo padre, e per suo padre, era la cifra della difficoltà e del dolore. E’ stato un lungo percorso rendersene conto.

Potessi, gli direi che gli voglio bene. Potessi lo abbraccerei quando raccontando quello che racconta, si emoziona. E piange.

Questo è l’intro a Long Time Comin’, live al Kerr Theatre, a New York, NY nel Luglio 2018. Questo il testo trascritto in inglese.

“Erano gli ultimi giorni della prima gravidanza di Patti. E ricevo una visita a sorpresa da parte di mio padre, a casa mia, a Los Angeles. Aveva guidato 500 miglia, senza preavviso, per bussare alla mia porta. Questo è il suo stile. Quindi, alle 11:00, ci sediamo nella sala da pranzo illuminata dal sole e ci prendiamo delle birre del mattino; questo è il suo stile. Questa è la colazione dei campioni di mio padre.

Mio padre, che non è stato mai un uomo loquace, giusto, ad un tratto dice: “Sei stato molto buono con noi”. Annuisco, era la verità, e lui continua: “Ed io non sono stato molto buono con te”. La stanza mi sembrò si fermasse. Rimasi shockato: l’inammissibile veniva per la prima volta riconosciuto [the unacknowledgeable was being acknowledged]. E se non lo avessi saputo, avrei giurato che mi stesse chiedendo scusa in qualche modo; così era.

Quindi negli ultimi giorni prima che diventassi padre, mio padre veniva a trovarmi per avvertirmi degli errori che aveva commesso e per avvertirmi di non farli con i miei figli. Liberarli dalla catena dei nostri peccati, di mio padre e miei e dei nostri padri prima, affinché siano liberi, di fare le proprie scelte e di vivere la propria vita. Possiamo essere fantasmi o essere antenati nella vita dei nostri figli. O poniamo i nostri errori, i nostri fardelli su di loro e li perseguitiamo, oppure li aiutiamo a deporre quei vecchi fardelli e li liberiamo dalla catena del nostro comportamento imperfetto.

E come antenati, camminiamo al loro fianco e li aiutiamo a trovare la propria strada e un po’ di trascendenza. Mio padre, quel giorno, mi chiedeva un ruolo ancestrale nella mia vita dopo essere stato un fantasma per molto tempo. Voleva che scrivessi una nuova fine alla nostra relazione e voleva che fossi pronto per il nuovo inizio che stavo per vivere. È stato il momento più bello della mia vita con mio padre, ed era tutto ciò di cui avevo bisogno

Poi è iniziata Long time comin’:

[…] It’s been a long time comin’, my dear
it’s been a long time comin’
but now it’s here

Well my daddy he was just a stranger
lived in a hotel downtown
when I was a kid he was just somebody
somebody I’d see around
somebody I’d see around

Now down below and pullin’ on my shirt
I got some kids of my own
well if I had one wish
in this god forsaken world, kids
it’d be that your mistakes would be your own
yeah your sins would be your own […]

Di vaccini, Covid, paura. E fiducia.

Fiore del Vaccino Covid-19
Fiore del Vaccino Covid-19

Fermo, hub vaccinale, sala d’attesa.
Io ho addosso il solito senso di gratitudine. E un po’ di debito, e un po’ di meraviglia.
Un’infermiera controlla i documenti a tutti gli utenti.
Si avvicina ad una coppia: padre e figlio. Carnagione scura entrambi; baffetti composti il primo; voragini nei jeans del secondo.
“E’ minorenne” – il padre anticipa l’infermiera e, a voce bassa – “è diabetico” aggiunge indicando il figlio.
La signora scruta il ragazzo da sopra i mezzi occhiali. Fa: “Insulina?”
“Sì”.
“Ok” – dice risoluta – “scrivi qui i farmaci che prendi”. Il dito indica una riga infondo al foglio.
Il ragazzo si alza, si appoggia ad un banchetto.
Fa per scrivere; la penna rimane a mezz’aria.
Quindi infila irrequieto gli occhi nel cellulare per cercare il nome del farmaco.
Mi avvicino.
Gli elenco 4/5 nomi commerciali dell’insulina. “Lantus, esatto!” si illumina. E scrive.
Poi mi ringrazia. “Me l’hanno cambiata da poco, non ricordo mai il nome”.
“Hai paura?”, attacco.
“Sì, un po’” – mi sorride impacciato – “Ma se volevano sterminarci tutti potevano iniziare da noi. No?”.
Rido della battuta acuta. “Io ho paura tutte le mattine, quando mi pungo” scherzo, ma non del tutto.
Ride anche lui: “Ma abbiamo fiducia!”, e gli si illuminano gli occhi.
E io penso che abbia ragione lui.
Che – alla fine – non ci salvi la scienza.
Forse nemmeno il vaccino.
Ma la tonda, piccola, fragile, febbricitante fiducia che riponiamo negli altri.
E la quantità di cui ne disponiamo è la stessa che rivolgiamo verso noi stessi.

***

Probabilmente io ho uno sguardo su questo tema, molto parziale e molto distorto.
Ma non possono non fidarmi dei “miei” diabetologi, degli infermieri che lavorano preso il reparto; e per estensione le persone che conosco e lavorano nella sanità.

Non posso non fidarmi delle persone che si prendono, si sono prese, e si prenderanno cura di me.

Perché – non una sola volta – mi hanno restituito alla vita; hanno accarezza la mia fragilità; mi hanno fatto vedere un me che non vedevo.

Nel mio caso, la fiducia -di un diabetico da 20 anni- è qualcosa di vitale per un motivo molto chiaro: senza sarei morto.

Avessi coltivano diffidenza sarei, semplicemente, morto.

Commiato

“Nel vento”, dicevi.

E io non faccio nessuna difficoltà a sentirti nell’aria dolce di questa sera di fine estate. A sentirti in questo sole estivo, che oggi è stato abbagliante come le vele che ti piaceva issare in terrazzo; o nell’odore delle pagine di questi libri, antichi e lisi. Come erano le tue cose: levigate ogni giorno, si facevano più affilate e più vaste.

Non faccio nessuna fatica ad accorgermi di te nell’ombra di questa piazza; devi esserci, in qualche vicolo, in qualche angolo, che ti meravigli, come sapevi fare con i tuoi occhi da bambino, della luna che sta sorgendo sopra al colle, del conversare di politica e insieme di Freud, e della presenza dei tuoi amici; devi esserci che rileggi una volta ancora, e chissà quante altre volte lo avresti fatto, “L’Infinito” – certo, come eri, della mortalità dei tuoi – come dicevi – “70 Kg di massa organica” capaci, però, di “concepire l’infinito e l’assoluto”.

Sei in questa brezza, nella canicola di ieri. Nei pensieri che penso. Nelle parole che parlo, che scrivo, che uso. E che non mi sembrano mai – come mi accade – inadeguate, lontane, ambigue. Non le tue, che sapevi usarle per curare, sì, ma anche per illuminare, donare, abbracciare. E dissezionare, anche. Con la punteggiatura che le vestiva come tu sapevi vestire di passione e di gioco le tue cose.

Alla Domus Aurea appoggiasti la mano sul muro di pietra, e lo sfiorasti con la fronte, e con la mente. Sei anche lì, sei ancora lì, ne sono certo. A sentire, come sentivi da “ateo impenitente”, il correre delle ere, dei secoli, delle persone che lo hanno attraversato. Dentro di te c’erano Ulisse, Gengis Kan, Federico II, Leopardi, Gramsci e Berlinguer. E tutti i miserabili della storia che onoravi continuamente. Tutti distinguibili, tutti tuoi, nella tua capacità incredibile di saperli far vivere. Come hai saputo far vivere la tua vita, raccontandola in quell’equilibrio perfetto fra cabaret e dolore. Intenso. Profondo. Distruttivo.

Sei nei tuoi racconti, nelle cose che lasci, nelle tantissime cose che hai scritto, nel tuo spiegare mai supponente. Nell’odore inconfondibile di casa tua: tabacco, legno, polvere, muffa, acrilici, libri. Nella collezione dei tuoi asinelli, nelle tue pipe, e negli scacchi. Nelle sigarette dappertutto. Nei mitili mangiati con coltello e forchetta. Nella tua paciosa galanteria. Nell’essere un “freudiano ortodosso” come ti piaceva definirti nel tuo lavoro (che rigorosamente facevi, non che eri). Nel rigore estremo, fino a farsi aspro, del pensiero, con cui sempre ti misuravi.

Sei nella materia che amavi, dove sapevi cogliere la storia, la vibrazione, la vita, la coscienza delle pietre. Nel tuo sentirti solo, come in una navicella alla deriva, eppure parte del tutto. Nei tuoi scazzi. Nei tuoi capricci. Nel tuo essere acuto, pungente e brusco. Sei ne La Stazione di Zima, lì eri e per sempre: nelle canzoni di Vecchioni, di Guccini, di Mercedes Sosa.

E sei qui. Mentre sto scrivendo. Mentre penso che sì, nella tua vita hai fatto più di abbastanza e la morte, certo, non ti ha trovato inerte.

Ci sei, Vinc, anche nel nostro perderci. In questo dolore che mi ha trovato crudo e solo. In questa distanza che non ho mai messo, perché non posso mettere distanza fra me e quello che sono. E quindi sto al gioco di questo dolore che mi abita e preme, come segno delle parole che hai piantato dentro. Le guarderò crescere con curiosità: anche questa curiosità – della vita e dell’umano – se guardo bene, è cosa tua.

Il Pugilatore delle terme, Simone Biles e le proprie maschere.

Simone Biles e il Pugilatore delle Terme.
Simone Biles e il Pugilatore delle Terme: da secoli uscire dal proprio ruolo crea conflitti.

Il grido brutale gli penetrò – spietato – negli orecchi. Si portò le mani alla testa, comprimendo i padiglioni. Poi si guardò le dita: bardate delle ampie cinghie – erano tumefatte, e i polpastrelli insanguinati.

La lotta era stata durissima. Nell’agon le poche regole erano crudeli e definitive: il cuoio intono alle nocche dell’avversario diventava una lama che strappava le carni.

Il ruggito successivo, di nuovo incomprensibile e animalesco, gli trapassò il cranio. Strinse le palpebre, quindi si voltò di lato in un movimento lentissimo e penoso. Il dolore lo trafisse da dietro i globi oculari.

“Perché hai alzato quel maledetto indice? Stavi vincendo!”.

Non disse una parola. Fece fatica a capire chi fosse l’uomo. Lo guatò con gli occhi ancora appannati di sudore, gli zigomi tumefatti dai colpi. Poi riconobbe la barba di Tullius, il suo allenatore. Anche la voce era trasfigurata dalla rabbia.

“Perché ti sei arreso?” strillò ancora mostrandogli il pugno e il ghigno feroce.

Brimias raccolte le poche energie che ancora lo sostenevano. I muscoli della schiena sembrarono gonfiarsi ancora, e lui ingobbire sotto al suo stesso peso. Senza alzare lo sguardo, disse: “Sono esausto di essere il pugile spietato che tutti vogliono. Basta”.

Mosse appena le labbra. Il sudore gli percorreva la schiena, e un liquido rossiccio, di sangue e sudore, gli colò sui guantoni. Morse l’aria: “La sconfitta. Sono un perdente, da ora. Va bene così”.

Tullius ammutolì. Un lampo di furore gli attraverso ancora gli occhi; se ne andò schernendolo. Mentre una curva sgemba -qualcosa di simile ad un sorriso- comparì sulle labbra sudice di Brimias.

***

E’ da un po’, dopo aver visto il Pugilatore delle terme nella sua casa di Roma, che sento il desiderio di scriverci qualcosa. Lì, ad osservare la statua da qualche metro, la potenza di quello che ha da dire, non si esaurisce e si amplifica: il dolore modellato su quel bronzo, attraversa i secoli, ha da narrare ancora qualcosa.

Gli eventi di questi giorni che hanno coinvolto Simone Biles me lo hanno ricordato.

Brimias come Biles. Il primo comunicato stampa della federazione di ginnastica USA, che minimizzava i fatti di Simone, come il gymnastes di Brimias: succede ogni volta che dismettiamo la maschera che indossiamo, per preferirne un’altra. Creiamo fratture, scompiglio, turbamento quando divergiamo dal personaggio che gli altri si aspettano.

Quando dismettiamo un ruolo, e cerchiamo di assumerne un altro, o nessuno: la relazione viene modificata, se la rapportiamo e la commisuriamo continuamente a ciò che desideriamo. In ogni tempo.

Biles e il Pugilatore – adesso lo so – questo mi dicono: che si può deludere, anche chi amiamo, se ci è diventato insostenibile assumere la parte che hanno pensano per noi. Che ci si può perdere, arrendersi, cambiare se lottare non è ciò che desideriamo. Se il tempo intorno al quale immaginiamo di dover essere è qualcosa di diverso dall’immagine pubblica che mostriamo; se sentiamo di essere incastrati – se non reclusi – dentro un ruolo che ci stringe, invece di essere noi a definirlo.

Lo si può fare continuamente.

Lo si deve fare continuamente.

Lo si può provare continuamente se questo nutre la polisemia che ci portiamo dentro.

L’ultimo messaggio di Simone Biles è illuminante: “L’amore e il sostegno che ho ricevuto mi hanno fatto capire che sono più dei miei successi e della mia ginnastica a cui non avevo mai creduto prima”.

Voglio immaginare che alcuni degli sguardi che l’hanno resa campionessa, permettendole di immaginarsi tale, sono gli stessi che ora l’hanno vista bisognosa di cure; e a lei di guardarsi: sguardi preziosi che tolgono maschere e ne creano continuamente, permettendoci di trovare la nostra misura e il nostro percorso.

Di aquiloni, cinema, Elly e libertà.

About Elly, la scena dell’aquilone.

“Che c’è tesoro?”
“Riesci a farlo volare?”

Provate a guardare questa scena. E’ tratta da About Elly.
Così. Senza sapere nulla del film, dell’Iran, di tutto quello che la sottende.
Provate.

Sentite la gioia di Elly. E poi la sua angoscia. E poi la sua felicità guizzante.
Quella gioia che non riesce a vivere completamente anche in qualcosa di profondamente bello e semplice come il volo di un aquilone. Come di quel vento. Come di quel mare.

Poi potrete pensarvi trentenni, benestanti, socialmente inseriti. Con un hijab in testa. Le maniche lunghe fino ai polsi in estate.
E con una storia – di oblio, violenza personale e politica – che non è solo vostra: è di una comunità. Che vi segue come un ombra anche se siete trentenni, benestanti, socialmente inseriti.
Provate.

Cercavo da molto questa scena. Dopo aver visto il film. Dopo il tormento del film.
Non sono un cultore di cinema, men che meno del cinema iraniano: genericamente ha ritmi troppo lenti e significati troppo angusti per me. Eppure questa scena mi è rimasta dentro impigliata. Incastonata.

L’allegria, l’angoscia, l’affanno, la gioia, e ancora dolore, e poi il riso di Elly. E ancora la sua gioia. Gli schizzi prodotti della sua corsa. La voce del mare che sembra chiamare. La libertà sul suo volto. Le sue grida. L’aquilone come un “falco alto levato”. E ancora il senso di oppressione.

Dopo questi fotogrammi accadrà qualcosa di terribile e irreparabile: perché questa scena un attimo prima della tragedia? Mi trafigge l’idea che il regista abbia voluto punire Elly per questo gesto di intima, piccola, completa felicità.

Nuda. La misura della distanza fra desideri e libertà.

Se avete voglia di qualcosa di autentico. Se avete voglia dell’erotismo della parola e della carne.
Se volete una idea per misurare la distanza fra i propri desideri e quelli che ci si concede.
Se cercate il languido, il porno, l’eccitazione. L’intreccio dei corpi, dei fiati, dei morsi. Ma anche la storia, la favola, l’amore. E senza “ma”.

Se cercate altri modi per dire “coppia”; se considerate che le convenzioni sociali siano sempre un po’ troppo strette per le preziose emozioni degli individui, per i loro desideri, per le loro voglie, per la loro realizzazione piena, per le loro fragilità; se pensate che la libertà (non solo quella sessuale) può essere agita e desiderata pienamente, oltre che pensata e scelta in segreto, in silenzio.

Se avete bisogno di pensare che – cercando nei propri abissi, nelle proprie altezze; nella propria pelle – altre forme sono possibili.
Se vi va di allontanarvi dal moralismo, dal perbenismo e considerare una prospettiva altra; se vi fa di vedere il femminile, anzi una femmina, distante dallo stereotipo romantico, pur restando femmina e romantica, percorrere le vie del sesso e dell’amore senza doverlo incasellare, delimitare, categorizzare. E giudicandolo solo rispetto a sè stessa.

Ci sono moltissimi motivi per leggere “Nuda”. E io ne ho citati solo alcuni.
Inoltre è scritto bene; si legge in fretta; e ha la capacità di “renderti estraneo a te stesso”, lasciandoti nel dubbio e nell’incertezza. Forse alla ricerca proprio di te.

“Nuda” è la storia -vera- di una donna che ha deciso di vivere la propria sessualità come espressione piena della propria libertà, lontano dai dogmi e dal perbenismo, trovando sulla stessa strada l’amore, e continuando a raccontarlo ogni giorno sulla su proprie pagine social con passione, ironia, destrezza, impegno, bellezza.

Il profilo dell’autrice: Anna Salvaje
La pagina Facebook del libro: Nuda – di Anna Salvaje

Piccolo museo del diario: l’emozione della memoria

Piccolo Museo del Diario. Pieve Santo Stefano.
Il Piccolo Museo del Diario è a Pieve Santo Stefano in provincia di Arezzo

A Dicembre ho ricevuto il dono degli amici del Piccolo museo del Diario; e poi, per qualche motivo che non so, -forse una giornata particolarmente frenetica, forse disattenzione- l’ho abbandonato sopra una scrivania infrequentata.

Era il periodo natalizio. Lo ritrovo oggi, e mi sembra un’altra nascita, un regalo che posso apprezzare più ora, fuori dalla confusione di quel periodo. E’ un piccolo catalogo del museo (carta bellissima, fragrante; la rilegatura sembra fatta artigianalmente). Vi sono contenute alcune storie, fra le più conosciute, che il museo conserva; poi la descrizione dei luoghi che custodiscono i quaderni, delle persone più prossime che li animano e li amano.
Il catalogo è accompagnato una cartolina d’auguri vergata a mano, dalla calligrafia tonda e robusta; il lapis è viola. Si conclude: “[…] Spero ti faccia tornare un po’ di emozioni“. La firma è della presidente Loretta Veri.

E’ stato come riaccendere le luci del presepe -sapete? la ruota del mulino ad acqua; il pastore che fa l’inchino- ed incantarsi e vivere di nuovo quella emozione piccola, profonda, lontana e dolcissima. Intima.
La scala, il salone a destra (il legno caldo della libreria, i finestroni sulla piazza); l’attesa, l’odore di carta, il bookshop; infine la porticina che si apre: i cassetti della memoria che attendono si parlarti.

***

Nella foto, la pagina del catalogo dedicata a Luisa T.
Siamo negli anni ’70, a Borgo Flora, in provincia di Latina, ha 24 anni ed è moglie di un marito violento. Hanno un figlio. Lei inizia a scrivere questo diario, che durerà per 15 anni, e che la aiuterà a liberarsi dai soprusi che quotidianamente subisce. Luisa descrive un clima familiare di dolore continuo fatto di minacce, parole e gesti volgari, mortificazioni, violenza fisica. Nonostante questo, la dolcezza con cui intesse le sue pagine è commovente.

“[…] Ora però ho deciso di accettarmi come sono compresa l’ignoranza quindi ho messo nella facciata la mia foto con tutti i miei dati per sconfiggere ogni tentazione di bruciarti, perché mi guarderò e capirò che tu quaderno sei la vera Luisa nel bene e nel male e rinnegarti sarebbe un suicidio“.

Mi mancate. Ci vediamo presto; appena si potrà.
E a chi mi legge, il consiglio è sempre lo stesso: andate andate andate.

La città delle mille gru

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Volevo andare da moltissimo tempo. Dovevo, forse. La sogno ciclicamente: i calcinacci e i vicoli; il buio e le 99 cannelle; la polvere e piazza duomo.

All’Aquila ho trovato gru. Tante gru. Che somigliano, davvero, a grossi uccelli che allungano il becco sopra la città. Sopra ogni chiesa, ogni palazzo, ogni piazza: che sembrano di sostenerla con questi lunghi bracci in bilico fra il cielo e i tetti.
Poi ho trovato il blu di una giornata tersa, scaldata da quel poco di primavera appena arrivata; e la corolla di bianco del massiccio del Gran Sasso che incornicia la città, in mezzo alla valle.

L’ho trovato un po’ impreparata ai pochi turisti e ai molti curiosi; dignitosa e gentile per tramite dei negozianti. L’ho trovata bellissima in piazza Duomo; fra gli ori della volta della Basilica di San Bernardino; incantevole nella recuperata Basilica di Collemaggio: la chiesa di Celestino V, il piazzale fiorito, i suoi spazi monumentali, la pavimentazione con i riferimenti esoterici.

Infine, come trapunta da un vetro sottile, l’ho trovata in rinascita. In modo fragile, silenzioso, impercettibile. Eppure vivissimo.

Se questa è vita

Danila scrive cose che spesso non condivido. Ma quando accarezza le corde del cuore, anche in temi difficili come questo, lo fa con una delicatezza, e insieme una forza, che riconosco esserle completamente proprie. Grazie di ogni singola parola, di ogni carezza. Di ogni pensiero, D.

[…]
Due mesi dopo, una mattina, il marito trovò Laura morta nel letto. Non respirava più. Era ancora rosea, esattamente come quando stava bene ed aveva, sul viso, un sorriso accennato.

Nei giorni seguenti, il corpo di Laura fu vegliato per due notti nella sua camera da letto. Eccetto per un leggero gonfiore, il suo viso rimase bello fin quando la deposero dentro la bara di mogano.
Paolo non partecipò al rito. Non perché avesse timore di sguardi, voci, mezza parole che si sarebbero certamente levate per la sua presenza, semplicemente perché – ne era convinto – Laura non era lì, in quel corpo morto. Detestava, anzi, l’esposizione della salma, la glorificazione inutile di quella carne che sarebbe presto marcita.
Laura non era lì; e non ne aveva alcun dubbio. Non era nel freddo della fronte, o nell’immobilità del petto; o nel grigio terreo di quella pelle, che invece aveva crepitato sotto le sue mani; o in quegli occhi orrendamente serrati che si erano accesi ogni volta che aveva accolto le sue parole.
Laura non era lì. La portava dentro; era stata, e avrebbe continuato ad essere una parte della sua vita. Un frammento di carne, ma di carne pulsante: come una gamba, un braccio, un occhio. Come le parole che le aveva insegnato, e che le affioravano continuamente alle labbra; come la capacità di meravigliarsi, o quella – che aveva acquisito lei nel corso degli anni – di perdonare e silenziare i propri tumulti.
Laura continuava a vivere nella sua mente, come nel gesto di scansarsi i capelli davanti gli occhi; o quello di roteare, mentre mescolava, il cucchiaino nella tazza di caffè; o quello di toccare il display del cellulare con il polpastrello dell’indice. Brandelli di Laura che si erano infilati sotto le unghie, nelle pieghe del cuore, nelle parole della mente, che non lo avrebbero mai abbandonato.
E nel dolore della perdita, nella vertigine di un nuovo inizio, questo non solo era la più efficace consolazione, ma era la certezza che avrebbe potuto continuare a viverla, e ad averla addosso, senza poter perderla mai.

Sorgente: Se questa è vita

L’Amore non finisce mai, Rob. Ciò che fa male, almeno a me, é parlarne al passato, come qualcosa che “fu” e mai più sará. Ma perché dovrei parlarne al passato se io amo mia mamma anche in questo momento, anche se sono 11 anni che non la vedo e non mi abbraccia fisicamente?

Canzone per Alda Merini

Stamattina Facebook mi ricorda questa trascrizione che devo aver fatto proprio il 3 Maggio 2012 – non so bene da cosa – dove, invento con una certa sicurezza – lo stesso Vecchioni racconta la generazione e il significato di questa canzone.
Se qualche lettore dovesse riconoscere di aver ascoltato in qualche luogo queste parole sarei grato se lo dicesse 🙂

La canzone per Alda che alla fine degli anni novanta viene perché non ne potevo più… Un giorno le ho chiesto: ma tu sei felice?… che cosa sarà la felicità per i poeti… e lei mi rispose in un modo secondo me bellissimo… basta niente per essere felici: basta vivere come le cose che dici e dividerti in tutte le cose che hai per non perderle mai… è il massimo quello che hai detto, è vero, la felicità secondo me è questo… e allora le ho detto: guarda Alda io parto da qui, ti faccio una canzone che sarà la tua, permetti anche mia perché ti amo, però questi quattro versi me li devi lasciare, perché sono il centro di tutto quello che sei tu.
E infatti la canzone è quello che è lei adesso: il dramma di Gerico, il problema del tornare non al cielo ma all’inferno,inizia la canzone inizia con una realtà pazzesca, cioè questo manicomio dove le legavano i polsi, addirittura… non poteva scrivere, anche perché, se l’avesse voluto, con i polsi legati, quindi non poteva farlo. E poi elettroshock e tutto il resto…una specie di viaggio verso la… di se stessa che passa attraverso un sacco di gironi infernali: le figlie che non vengono, le perde, che se ne vanno da tutte le parti del mondo.
E a questo punto c’è la domanda: ma con tutto quello che hai passato, come fai ad essere felice? Perché io non ho mai perso niente… le cose… non ho mai diviso la mia vita da quello che ho scritto, non ho mai diviso la mia vita da quello che ho pensato e mi sono divisa in tutte le persone che ho amato e me le sono tenuta…
E mi sono detto: questa è la risposta che è un grandissimo, grandissimo… mi ha dato questo input per farlo. E poi metterci una melodia su una canzone così è stato facilissimo perché è proprio il crescendo di una donna che vuole gridare a tutti: io sono libera. E infatti la canzone finisce gridando: sono libere le mie mani, libera la mia bocca, è libero il mio cuore, libero il sesso, è libero tutto dentro di me. E tutto questo per dire: la vita è libertà, nonostante tutto quello che ho passato. E questa è la canzone raccontata, si può anche raccontare una canzone!

Purple rain

Eccolo. Prima la traccia da scaricare. Poi il video ufficiale di un fan, che non poteva mancare.
Ed è incredibile. Perché suona come una canzone di Bruce: per la band, per la sua voce sporca e profonda. Per le dita veloci e nodose di Nils. Per il suo assolo piratesco; per Bruce che lo incita mentre accarezza altre corde con il plettro.
Così non riesco a smettere di ascoltarla.
Stamattina mi chiedevo come potessi spiegare la Bellezza a una persona che amo. Bellezza. Ed eccola qua. Quella che mi è stata donata, con gli occhi che mi sono stati donati, e quelli che ho donato. Occhi per guardare e pelle per sentire. Emozioni per vivere.
Questa è bellezza, un respiro profondo.
Ascoltatela. E godetevi quella mancanza improvvisa, negli ultimi arpeggi. Perché succede così per la canzoni eterne: che quando finiscono, ti hanno già scavato dentro un vuoto di malinconia e di assenza. Di profonda Bellezza. In appena in 6 minuti.
E tu te ne accorgi solo quando sei arrivato alle ultime note. E vale poco che si possa fare “riavvolgi”.
Manchi Bruce, manchi tanto.

Generazione di fenomeni. 25 anni fa.

La palla era bianca, e pesava di più; c’era il cambio palla e non il libero. Il net era fallo, la battuta in salto float non esisteva e i battitori con i piedi a terra più di quelli in salto. Era il 1990, c’era Mimì fra i cartoni da vedere (sua cugina Mila -con Shiro- arriverà solo qualche anno dopo) ed io uno dei ragazzi che attendevano ogni domenica le immagini della Domenica Sportiva (di Sandro Ciotti…) per guardarsi un po’ del proprio sport preferito: in tre minuti, i risultati della giornata di campionato.

Per me e per molti, inizio tutto lì, proprio quella sera. Ero fra questi ragazzi anche esattamente 25 anni fa, quando le immagini finali dell’impresa andarono in diretta: l’Italia era campione del Mondo di Volley. Con orgoglio, “noi” ragazzi, potevamo dire che conoscevamo già quegli altri ragazzi, vestiti di bianco che avevano appena sconfitto la corazzata cubana di Joel Despaigne: Lucchetta, Zorzi, Cantagalli, Gardini, Bernardi, Tofoli. Erano campioni del mondo: una -vera- generazione di fenomeni che iniziava il suo percorso nella storia e nella gloria dello sport.
Quei ragazzi finirono sui giornali, e “noi” ragazzi acquistammo un pallone per giocare nel cortine, e un po’ onorare i loro gesti. Parlavamo dei primi tempi di Lucchetta, e dell’intelligenza tattica di Tofoli, delle teorie di Velasco (solo più tardi, di quanto quelle idee erano forti dentro al campo come fuori). Forse la loro gloria era un po’ anche la nostra. E di un po’ ci sentivamo persino parte.

Iniziò tutto quella sera. E il riverbero ancora ce lo portiamo -indiscutibilmente- dentro.

Quasi amici. Complici.

Quasi Amici, Driss e Philippe

La prima battuta politicamente scorretta arriva dopo qualche minuto. “No no, tranquillo, non si alzi”, indirizzata al co-protagonista tetraplegico. La sala rumoreggia, un accenno di sorriso furbo: l’irriverenza della frase lascia la platea sospesa fra l’ironia e l’affronto morale.

Nel corso del film, le battute sullo stato di handicap di Philippe si susseguiranno. Incalzanti. A volte sarcastiche. Taglienti. Anche scorrette. Inizia così: con la semplicità disarmante di Driss, con la verità senza pietà della sue parole, la loro amicizia. Prima sguardi bruschi, che poi si addolciscono (e penso a “La vita non è aspettare che passi la tempesta, ma imparare a ballare sotto la pioggia”); si arrotondano alla schiettezza di questo ragazzo nero, robusto. Dai dentoni bianchi che scintillano quando sghignazza nel suo modo sguagliato. Che non sarà un campione di modo gentili, ma è senz’altro sincero. Come ne cercava da tempo: in fuga – Philippe – del pietismo spicciolo a perbenista che lo circonda.

E’ Untouchables, francese di produzione, tradotto maldestramente in italiano con Quasi Amici. La storia delicata, irriverente, a tratti goliardica, che sarebbe perfetta per un racconto di Natale. Tanto accende il cuore. Tanto mette in pace con il mondo, tanta è la fresca comicità che lo cuce come un abito delicatissimo. Tante sono le emozioni: perfettamente sottolineate dalla colonna sonora di Ludovico Einaudi.

Driss e Philippe. L’uno aristocratico benestante, l’altro appena uscito di galera, dei sobborghi di Parigi. L’uno riservato, intellettuale, amante dell’arte e della musica classica. L’altro prorompente, eccessivo, di più: dissacratore. Distanti, mondi diversi, eppure così simili. I motori, la velocità, il senso del limite, (o il non-senso del limite…): sono le prime cose che li uniscono.
Poi. Poi, si vedono complici – e lo sono – nel senso di giustizia. Nella loro voglia di libertà. Nella loro voglia di sincerità. Di affetto vero: di essere apprezzati così come sono. E chissà quanto sia contato per Driss, il fatto che Philippe gli abbia richiesto il suo uovo, quello di suo moglie, quello che Driss gli aveva rubato, solo dopo averlo assunto. Un altro modo di accettare l’altro: anche come ladro…

Il loro diventare complici è un movimento profondo. Che inizia con la consapevolezza che l’altro è una fonte di vita, di ispirazione. Un approccio lento, ma costante. Driss inizia a dipingere, Philippe accetta di indossare – orgoglioso – un orecchino simile a quello del suo amico. Questo inizia ad usare termini indecenti, quello inizia a vestire come un damerino. Poi la musica: dal primo scontro, ad elemento di unione. Quella classica che ascolta Philippe interessa Driss. A modo suo, naturalmente: “Bach è il Berry White dell’epoca”, dice; e dell’Inno alla Gioia: “Ma si, questa la conoscono tutti! E’ dell’ufficio collocamento di Parigi”. Ride Driss – scintillano i suoi dentoni -, ride la platea, confortata dal vedere che anche le sventure più terribili si possono trattare con ironia. E starne bene, senza mentirsi. Ride Philippe. Che poi balla anche lui – al ritmo dei Kool & the Gang – come può: ondeggia il capo; danzano i domestici, alla musica di Driss. Che balla. Oscilla come un giunco. In un movimento purissimo e ristoratore. E’ un atto di gioia. Di liberazione. Che coinvolge – come non potrebbe – anche il suo amico.

Amare è riconoscersi. E’ scambiarsi pezzi di se stessi con l’altro. O un po’ di musica. O una parola. O il vezzo di un gesto. E’ questo infiltrarsi, continuo e costante, nell’altro per renderlo diverso da sè. Eppure così uguale. E’ capire, senza dire. E’ chiedere, senza parole…

Chiedere, senza parole. E accade che il secondo incontro fra Philippe e Eleonore non sia invocato. La loro corrispondenza epistolare dura da un po’, ma Philippe non riesce ad incontrarla. Si sente inadeguato, e con un conto in banca troppo ampio per essere apprezzato per quel che è.
Driss – che nel frattempo ha trovato un altro lavoro – ci mette del suo: dopo una notte trascorsa insieme alla guida della loro auto – immersi nella malinconia degli amici , e un po’ degli innamorati, l’aria che li fa “respirare un po’” – , zigzagando come pazzi fra le strade di Parigi, dopo del tempo passato a riempirsi della bellezza del mare, la stessa bellezza resta a due passi. Quelli fra il ristorante – dove Driss ha prenotato – e la spiaggia. Si vede il mare, da lì. Più tardi la darsena, e Driss che se ne va.
Permette il suo amico incontrare Eleonore, organizzando il loro incontro. Un gesto non richiesto, di cui si prende – un po’ incosapevolmente, come ogni cosa che fa – la responsabilità. A Philippe non è bastato non chiedere. Perchè, in fondo, la richiesta – muta – gli arrivava silenziosa dal cuore. All’amico è stato sufficiente coglierla. Come dire: a volte è necessario prendersi le propri obblighi quando si tratta della felicità di qualcuno…
Poi Driss se ne va, e con la consueta ironia: “Stavolta non puoi scappare”; Philippe si agita sulla sedia, “Cos’è questa storia?”. Arriva Eleonore. Driss, da dietro i finestroni, fa un sorriso, Philippe gli risponde di rimando – un sorriso tranquillo che è più di un grazie: è un atto di complicità – poi il ragazzo accenna un saluto, e via lungo la darsena.

E’ un film intenso. In mezzo – oltre all’amicizia, al concetto di diversità – molti altri temi. Trattati con un’ironia, e una delicatezza, che non toglie spazio al pensare, ma riempie di emozioni. E anche di risate. E motivi per riflettere.