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Springsteen, qualcosa di intimo come la morte.

L’emozione, giovedì a Ferrara, è arrivata quando l’hostess mi ha stretto al polso il braccialetto del pit. Era qualcosa a cui non avevo pensato, e quella fascia mi ha svegliato dal torpore: sei ad un concerto di Bruce, puoi pensare solo a divertirti.
Attendevo gli uomini-ragno inerpicarsi lassù al margine del palco. E invece no: la band è entrata qualche minuto dopo le 19:30 rompendo una routine che pensavo fosse confermata. Non sarà la prima rottura.

Per la prima volta ho avuto l’impressione che Bruce abbia “tenuto per sé” qualcosa, della consueta – ed anche giovedì confermata – generosità sul palco. Abbia deciso per una lunga monografia intorno a se stesso, abbia deciso di farsi ascoltare ma di più abbia voluto farsi comprendere. Bene, molto bene. Sono una novità i testi e lo speech tradotti: con cui racconta il suo rapporto con la giovinezza, con gli anni di una carriera lunghissima. Con la morte. Forse è la prima volta che Bruce canta una biografia così potente, con sè stesso così al centro: senza personaggi a cui appoggiarsi, senza le scene cinematografiche che conosciamo, senza proiezioni: parla di sé in prima persona, di come è diventato l’uomo e l’artista che è; parla di come si sta relazionando alla (sua) morte, perfettamente descritta con l’immagine potente del treno e della luce.

Certo. Ha confezionato uno show diverso da quello a cui eravamo abituati (il juke box, la festa continua, il suo concedersi incessantemente ai fan), ma io penso che Bruce abbia messo in conto di regalarci questa “mancanza”. Perché sente di avere sempre meno tempo, e sente di voler essere compreso, in modo non banale. Questa sua umanissima fragilità a me stupisce e commuove. Ieri pensavo a “Guarda che non sono io” di De Gregori. Mi sembra che Bruce, fra le note (fra “Last man standing”, e la chitarra issata su Backstreets), senza rimpiangere nulla, volesse dire: “Sì, so farti divertire e commuovere. Ma ecco un pezzo di me, tienilo e ascoltalo. Abbine cura”. Abbine cura, addirittura.

Non credo sia un addio. Ha ricordato sempre che continuerà a fare live (con spettacoli organizzati in modo diverso, magari) e ad avere una relazione privilegiata con i suoi fan. Ma in questo periodo vuole che la comunicazione sia di un certo tipo: più riflessiva, più intimistica. Vuole che le sue parole arrivino per restare. E’ cambiato, sì, forse. E questo adattamento gli è conforme e necessario. Io l’ho trovato un regalo bello e grande.

Non parlerò di musica. Non occorre. Non è una questione di bravura, di qualità, di band che sembra un organismo perfetto. Nè della sua voce, o di tutti quelli – al primo concerto – che mi raccontano la propria meraviglia. Non è importante. E’ importante quello che ha creato (con la gioia, la malinconia, l’energia solo sua) nel corso degli anni. E’ importante quel feelling. Il suo desiderio di dircelo.

Per ultimo, solo una cosa sulla polemica intorno l’alluvione. Si, non ha detto niente. Ma io preferisco giudicarlo non per qualcosa in cui (forse) è mancato ma per tutte le volte che, invece, ha espresso la sua solidarietà, con le parole e il suo patrimonio. Non sapremo mai se è stato un “errore” o una scelta volontaria. Io avrei preferito altro, ma non cambia nulla nella sua storia. E nella stima che ho di lui.

Nanci Griffith, e quegli occhi voraci di mondo

Ho conosciuto Nanci Griffith in una delle tante peregrinazioni intorno alle cover cantate da Bruce. A decine: un mostra straordinario per omaggiare colleghi famosissimi, o altri meno conosciuti. E del resto, io non ho mai avuto molti altri modi per conoscere altri artisti.

Bruce aveva provato “Gulf Coast Highway” di Nanci in un sound check nel Tunnel Of Love tour. Credo non la canterà mai ufficialmente; ma ci sono bootleg dove è possibile ascoltare quella performance. C’è Patti e c’è questo “La la la” che scioglie le spalle, che cerca di ridisegnare leggerezze. Anche se è un sound check, anche se è del tutto informale. E c’è questa strofa arpeggiata con la chitarra che somiglia vagamente a “My beautiful reward”.

Mi piacque. Pensai che Bruce doveva essere affascinato da un testo molto – troppo simile – ai suoi: l’hard job, le rotaie, le highway, i cofani blu, i perdenti. E dalla sua voce da “andate tutti a quel paese”, come avrebbe detto Baricco di lui anni dopo, e “perfetta per finire”.

Dopo quell’ascolto presi ad ascoltare Nanci Griffith per un po’ di tempo. Mi sembrò – ma sono valutazioni che non sapevo fare allora ne adesso – un talento cristallino; mi ispirò sicuramente per il suo essere un’artista generosa, vicina al suo pubblico, ma soprattutto con tante storie “americane” da raccontare. Da “Furore” a Roth. Dal country a folk. Dall’amore alla fuga. Sempre con quel sorriso un po’ dimesso, un po’ fuori fuoco; quegli occhi grandi voraci di mondo. E quella voce che invece rendeva sacra ogni nota che accarezzava. Con la delicatezza e l’intensità di un cordoglio.

Ho scoperto solo ieri che lo scorso anno Nanci Griffith è morta. Da ieri, ho ripreso ad ascoltarla. Chissà che le sue canzoni non mi dicano altro, oltre a quello che mi raccontarono 30 anni fa. E quel cordoglio ora non sia solo malinconia.

Sentita questa che bella.

Il desiderio dell’orca

Illustrazione di L.T.G - Artes (aka Ana Novaes) - L'orca
L’illustrazione è di L.T.G – Artes (aka Ana Novaes)

Vorrei chiederti mille e mille e mille volte ancora,
e mille volte ogni giorno, e mille volte ogni ora: “Come stai?”
Come sai fare tu.
Come non so fare io.
Che mi perdo nel suono della parole. E nel ritmo. Nel fumo e nel fuoco.
E a volte nel senso.

“Come stai?”
E sentirti dire che stai bene.
Che lotti, che sbracci, che arranchi.
Che tessi questa fibra asciutta che è la tua vita.
Che è questa rosa.
Che è la tua orca.
Immersa nella disperazione dell’acqua,
e il desiderio degli occhi puntati verso il cielo.

Io mi porto questo verde alle labbra

mi-porto-questo-verde-alle-labbra

Io mi porto questo verde alle labbra
questo vischioso giurare di foglie –
questa terra che è spergiura: madre
di bucaneve, aceri, quercioli.

Mi piego alle umili radici, e guarda
come divento insieme cieco e forte;
non fa dono, il risonante parco
di una sontuosità eccessiva agli occhi?

E – palline di mercurio – le rane
con le voci s’agglomerano a palla;
i nudi stecchi si mutano in rami
e in lattea finzione il vapore dell’aria.

— 30 aprile 1937, Osip Mandel’stam

Consacrato Blu

Laguna dello Stagnone. Marsala, Trapani.

Laguna dello Stagnone. Marsala, Trapani.

 

La poesia è tratta da questo bellissimo post dell’autrice: dedicata alla Sicilia.

*

Ridurre la piega che di netto
consacrato Blu
mi cava gli occhi?

O dirti
nei crostoni spumati
su saracene albe
affidate a chi non ha memoria?

E dirti, spaccando il bacio
insenato tra baie
spariglianubi, un soprassalto
di luce nel giorno?

Alba Gnazi
Agrigento, 25/07/2016

Taci anima mia

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Taci, anima mia. Son questi i tristi giorni
in cui senza volontà si vive,
i giorni dell’attesa disperata.
Come l’albero ignudo a mezzo inverno
che s’attriste nella deserta corte
io non credo di mettere più foglie
e dubito d’averle messe mai.
Andando per la strada così solo
tra la gente che m’urta e non mi vede
mi pare d’esser da me stesso assente.
E m’accalco ad udire dov’è ressa
sosto dalle vetrine abbarbagliato
e mi volto al frusciare d’ogni gonna.
Per la voce d’un cantastorie cieco
per l’improvviso lampo d’una nuca
mi sgocciolano dagli occhi sciocche lacrime
mi s’accendon negli occhi cupidigie.
Chè tutta la mia vita è nei miei occhi:
ogni cosa che passa la commuove
come debola vento un’acqua morta.

Io son come uno specchio rassegnato
che riflette ogni cosa per la via.
In me stesso non guardo perché nulla
vi troverei…

E, venuta la sera, nel mio letto
mi stendo lungo come in una bara.

— Camillo Sbarbaro

Sensazione

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I miei pensieri sono qualcosa che la mia anima teme.
Fremo per la mia allegria.
A volte mi sento invadere da
una vaga, fredda, triste, implacabile
quasi-concupiscente spiritualità.

Mi fa tutt’uno con l’erba.
La mia vita sottrae colore a tutti i fiori.
La brezza che sembra restia a passare scrolla dalle mie ore rossi petali
e il mio cuore arde senza pioggia.

Poi Dio diventa un mio vizio
e i divini sentimenti un abbraccio
che annega i miei sensi nel suo vino
e non lascia contorni nei miei modi
di vedere Dio fiorire, crescere e splendere.

I miei pensieri e sentimenti si confondono e formano
una vaga e tiepida anima-unità.
Come il mare che prevede una tempesta,
un pigro dolore e un’ inquietudine fanno di me
il mormorio di un incalzante stormo.

I miei inariditi pensieri si mescolano e occupano
le loro interpresenze, e usurpano
gli uni il posto degli altri. Non distinguo
nulla in me tranne l’impossibile
amalgama delle molte cose che sono.

Sono un bevitore dei miei pensieri
L’essenza dei miei sentimenti inonda la mia anima.
La mia volontà vi si impregna.
Poi la vita ferma un sogno e fa sfiorire
la bellezza nel dolore dei miei versi.

— Fernando Pessoa

Rifugio

Immagine

Non c’è mai
neve,
né nebbia.
Né grigio
di nuvole.
Né un buco,
un nido,
caldo, d’insetto.

Né il brunito dell’alba
che precede
la fiamma del sole.

Piove, oltre il colle:
nel ritmo rotto del tempo.

Le candele

Stanno i giorni futuri innanzi a noi
come una fila di candele accese,
dorate, calde e vivide.

Restano indietro i giorni del passato,
penosa riga di candele spente:
le più vicine danno fumo ancora,
fredde, disfatte, e storte.

Non le voglio vedere: m’accora il loro aspetto,
la memoria m’accora del loro antico lume.
E guardo avanti le candele accese.

Non mi voglio voltare, ch’io non scorga, in un brivido,
come s’allunga presto la tenebrosa riga,
come crescono presto le mie candele spente.

— Costantinos Kavafis

Ero leggera come una nuvola

Nuvola

La foto è di Flavia Daneo

 

Ero leggera come la tua nuvola
poi venni appesantita dal dolore
la musica del tuo palcoscenico
diventò un ringhio feroce.
Non ti voglio parlare delle mie pene umane
ma delle pene disumane di coloro che odiano,
che odiano l’arte e la sua sconfinata terra.
Mi trovai a ballare anch’io in un deserto assoluto
dove non c’era un amore, ma io so che se tu danzi
un dio segreto ti vede e accompagna i tuoi passi.

— Alda Merini

 

Ascolta

ascolta

Ascolta.
Parla dì te
quella vibrazione
sul ciglio
delle tue parole.
Quel tremolio
al margine del labbro,
scuro come una vertigine.
Parla di te,
più di ogni altra tua parola.
Ascoltala.

Un frullio incolore,
un suono, muto,
nell’acqua.
E’ il vento teso
che annuncia
l’inverno.
Reca parole bianche,
e nessuna soluzione.
Solo il duro nei polsi.

Ha il suono sbieco
della tristezza,
e un attimo d’abbandono:
ascoltala.
Ha bisogno di cure,
di un fuoco caldo,
di una parola piana.

Guardiano
debole
della tua sofferenza,
trema di luce
preziosa.
Parla di te: ascoltala.