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Chain of our sins: il racconto di Bruce.

Sign of brotherhood. Chi ama Bruce sa che di quel “chain of our sins” è intrisa tutta la sua musica. Tutta la sua arte. Tutta la sua storia. Tutta la sua vita.
C’è quel senso di redenzione e sconfitta, di breve successo e bruciante malinconia in ogni nota: la misura non solo della distanza dal sogno americano (come disse una volta) ma la distanza di quello che è, è voluto profondamente essere, scegliendo differenziazione, rottura, indipendenza. La sua distanza dal gorgo “dei peccati”. Un gorgo dove l’amore di suo padre, e per suo padre, era la cifra della difficoltà e del dolore. E’ stato un lungo percorso rendersene conto.

Potessi, gli direi che gli voglio bene. Potessi lo abbraccerei quando raccontando quello che racconta, si emoziona. E piange.

Questo è l’intro a Long Time Comin’, live al Kerr Theatre, a New York, NY nel Luglio 2018. Questo il testo trascritto in inglese.

“Erano gli ultimi giorni della prima gravidanza di Patti. E ricevo una visita a sorpresa da parte di mio padre, a casa mia, a Los Angeles. Aveva guidato 500 miglia, senza preavviso, per bussare alla mia porta. Questo è il suo stile. Quindi, alle 11:00, ci sediamo nella sala da pranzo illuminata dal sole e ci prendiamo delle birre del mattino; questo è il suo stile. Questa è la colazione dei campioni di mio padre.

Mio padre, che non è stato mai un uomo loquace, giusto, ad un tratto dice: “Sei stato molto buono con noi”. Annuisco, era la verità, e lui continua: “Ed io non sono stato molto buono con te”. La stanza mi sembrò si fermasse. Rimasi shockato: l’inammissibile veniva per la prima volta riconosciuto [the unacknowledgeable was being acknowledged]. E se non lo avessi saputo, avrei giurato che mi stesse chiedendo scusa in qualche modo; così era.

Quindi negli ultimi giorni prima che diventassi padre, mio padre veniva a trovarmi per avvertirmi degli errori che aveva commesso e per avvertirmi di non farli con i miei figli. Liberarli dalla catena dei nostri peccati, di mio padre e miei e dei nostri padri prima, affinché siano liberi, di fare le proprie scelte e di vivere la propria vita. Possiamo essere fantasmi o essere antenati nella vita dei nostri figli. O poniamo i nostri errori, i nostri fardelli su di loro e li perseguitiamo, oppure li aiutiamo a deporre quei vecchi fardelli e li liberiamo dalla catena del nostro comportamento imperfetto.

E come antenati, camminiamo al loro fianco e li aiutiamo a trovare la propria strada e un po’ di trascendenza. Mio padre, quel giorno, mi chiedeva un ruolo ancestrale nella mia vita dopo essere stato un fantasma per molto tempo. Voleva che scrivessi una nuova fine alla nostra relazione e voleva che fossi pronto per il nuovo inizio che stavo per vivere. È stato il momento più bello della mia vita con mio padre, ed era tutto ciò di cui avevo bisogno

Poi è iniziata Long time comin’:

[…] It’s been a long time comin’, my dear
it’s been a long time comin’
but now it’s here

Well my daddy he was just a stranger
lived in a hotel downtown
when I was a kid he was just somebody
somebody I’d see around
somebody I’d see around

Now down below and pullin’ on my shirt
I got some kids of my own
well if I had one wish
in this god forsaken world, kids
it’d be that your mistakes would be your own
yeah your sins would be your own […]

I could almost forget

18 canzoni di Bruce (o quasi), per i suoi 70 anni.
Ho scelto quelle un po’ meno popolari, perché Bruce andrebbe conosciuto per ogni sua nota e per ogni sua parola.

Gli “inni” sono bellissimi, ma la sua musica, pescando da generi anche molto diversi ma con un filo conduttore unico, offre spunti di riflessione e divertimento, continui, potenti, profondi. Basta cercarli, senza nemmeno dover setacciare molto 😉
Buon ascolto!

Tucson Train. C’è un dolore da bruciare, e un treno da prendere.

All’inizio c’è un fruscio; la punta di un vecchio giradischi.
Poi un ticchettio. Che evoca il ride di Max, ma non è.
Nel libretto di We Shall Overcome diceva che avremmo ascoltato -per quell’album- la musica “mentre viene fatta”. Succede anche qui.

C’è la solita mascella che scivola. Il bavero alzato da giovanotto. Le movenze goffe. Ma non con la chitarra al collo.
Poi c’è Patti, e il suo ciondolo. E Bruce che le sorride. E lei di rimando.
Gli occhi sempre più una fessura. Un anello che non avevo mai visto. 
Non c’è Max; ma c’è Charlie, e il suo hammond.
Un ritrovo di famiglia. In giardino, in salotto. In garage.
Una chitarra nuova, che suona con gioia.
E poi gli archi. Un tripudio infinito; un garrire di archi che avvolgono la musica.
E poi c’è un treno. 
E un “hard”. Intraducibile. Nemmeno con un paragrafo a sé. 
Un sole “hard” che brucerà ogni dolore.

Sentite che bella.

Non è solo rock’n’roll. Non lo è mai stato

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Bruce e Clarence.

E una volta l’aveva anche detto: “non è solo rock and roll”. Che aggiunge, non toglie nulla alla sua decisione di questi giorni. Già perché è proprio questo il punto: non è mai stato solo musica, solo spettacolo, solo un concerto. E’ stata sempre passione, relazioni, cuore, e -spesso- anche politica, nel senso più alto e migliore del termine. Ed è così che Bruce motiva, anche questa volta, la sua scelta tendendola fine alle estreme conseguenze.

Si dice che abbia perso un po’ di smalto artistico (eccetto poche cose, io adoro la sua ultima produzione, secondo me coraggiosa e inspiratissima) ma quello che sicuramente è rimasto (bello, vivo, vero) è l’uomo. coerente, lineare.
Con la possibilità di guardare in faccia la sua storia senza nessuna sbavatura: così è capace di essere grande e fanciullo, capace di emozionarsi solo come -senza sembrare blasfemo nel paragone- persone della politica Radicale sanno fare.
Bruce baciava in bocca Clarence (il suo amico grande e nero) nei concerti dell’80 (dando a questo gesto una serie infinita di significati); metteva coppie omosessuali nel video della sua più bella (fino ad allora) canzone d’amore; parlava dell’abuso di armi e dell’abuso della forza spropositata della polizia beccandosi gli insulti dei suoi concittadini (non che adesso, annullando un concerto, non ne ottenga); cantava dell’essere neri e poveri, dell’essere migranti e poveri: come lui stesso dice, ha misurato palmo a palmo la distanza fra la realtà e il sogno americano.
Bruce è un uomo che, nelle comunicazioni ufficiali, non ha nessun imbarazzo a utilizzare termini come “fratelli” e “sorelle”; e nel film che racconta la sua vita, di scambiare un braccialetto come segno di ‘brotherhood’ con una fan, come per farlo con ognuno.

Tutto quello che c’era da dire sulla questione, l’ha scritta Lorenza.
Io sono fiero di lui. Della sua coerenza. Della sua capacità di stupire e stupirmi ogni volta. Del suo restare piccolo (e spesso teneramente bambino) anche se è un gigante. Alla sua età può ormai permettere di prendere posizione, di dire la sua e -giustamente- di parlare ai suoi concittadini e al mondo.
Lo ha sempre fatto: con una chitarra in mano e la sua band. Adesso decide di farlo in modo diverso e (forse) più efficace. i suoi fan avranno capito: sanno che questa è solo l’ultimo atto -e non l’ultimo- della sua grandezza.