Etichettato: morte

Nanci Griffith, e quegli occhi voraci di mondo

Ho conosciuto Nanci Griffith in una delle tante peregrinazioni intorno alle cover cantate da Bruce. A decine: un mostra straordinario per omaggiare colleghi famosissimi, o altri meno conosciuti. E del resto, io non ho mai avuto molti altri modi per conoscere altri artisti.

Bruce aveva provato “Gulf Coast Highway” di Nanci in un sound check nel Tunnel Of Love tour. Credo non la canterà mai ufficialmente; ma ci sono bootleg dove è possibile ascoltare quella performance. C’è Patti e c’è questo “La la la” che scioglie le spalle, che cerca di ridisegnare leggerezze. Anche se è un sound check, anche se è del tutto informale. E c’è questa strofa arpeggiata con la chitarra che somiglia vagamente a “My beautiful reward”.

Mi piacque. Pensai che Bruce doveva essere affascinato da un testo molto – troppo simile – ai suoi: l’hard job, le rotaie, le highway, i cofani blu, i perdenti. E dalla sua voce da “andate tutti a quel paese”, come avrebbe detto Baricco di lui anni dopo, e “perfetta per finire”.

Dopo quell’ascolto presi ad ascoltare Nanci Griffith per un po’ di tempo. Mi sembrò – ma sono valutazioni che non sapevo fare allora ne adesso – un talento cristallino; mi ispirò sicuramente per il suo essere un’artista generosa, vicina al suo pubblico, ma soprattutto con tante storie “americane” da raccontare. Da “Furore” a Roth. Dal country a folk. Dall’amore alla fuga. Sempre con quel sorriso un po’ dimesso, un po’ fuori fuoco; quegli occhi grandi voraci di mondo. E quella voce che invece rendeva sacra ogni nota che accarezzava. Con la delicatezza e l’intensità di un cordoglio.

Ho scoperto solo ieri che lo scorso anno Nanci Griffith è morta. Da ieri, ho ripreso ad ascoltarla. Chissà che le sue canzoni non mi dicano altro, oltre a quello che mi raccontarono 30 anni fa. E quel cordoglio ora non sia solo malinconia.

Sentita questa che bella.

Il senso di questa Politica

Marco Cappato a San Benedetto del Tronto per promuovere il referendum sull'eutanasia legale.
Marco Cappato a San Benedetto del Tronto per promuovere il referendum sull’eutanasia legale.

La signora in pantaloni gialli e la mascherina azzurra appare mentre allestiamo il gazebo. Si guarda intorno spaesata, quindi si allontana rimpicciolendosi ad un angolo opposto.

Poco dopo arriva Marco Cappato, caduto nella sua mise consolidata: gli orribili mocassini, la camicia stropicciata nei calzoni senza cinta. La capigliatura improponibile, il solito sorriso gigione e sincero. Unica novità: il leggero brizzolato che gli tinge le basette.
Marco è lui. Puntuale e mai retorico. Appassionato e appassionante. Le persone fanno capannello intorno alle sue parole. Lo ascoltano attente.

La signora dai pantaloni gialli si avvicina. Inizia a filmare. Filma tutto l’intervento. Poi, al termine, è la prima ad avvicinarsi a Marco. Lei gli dice qualcosa. Lui sorride. Poi ammutolisce, mentre lei ha ancora la sua mano nella sua. Pochi attimi ancora, forse un ringraziamento, e la signora se ne va.
Incrocio i suoi occhi: sopra la mascherina, sono rossi, umidi di emozione. E di dolore. Profondo. Contingente.

La seguo con lo sguardo. Mi dico che forse, di quel dolore, stasera, la signora dai pantaloni gialli, ha trovato il giusto riscatto. E un po’ di sollievo.

E nei suoi occhi, questa Politica, tutto il suo senso.

Commiato

“Nel vento”, dicevi.

E io non faccio nessuna difficoltà a sentirti nell’aria dolce di questa sera di fine estate. A sentirti in questo sole estivo, che oggi è stato abbagliante come le vele che ti piaceva issare in terrazzo; o nell’odore delle pagine di questi libri, antichi e lisi. Come erano le tue cose: levigate ogni giorno, si facevano più affilate e più vaste.

Non faccio nessuna fatica ad accorgermi di te nell’ombra di questa piazza; devi esserci, in qualche vicolo, in qualche angolo, che ti meravigli, come sapevi fare con i tuoi occhi da bambino, della luna che sta sorgendo sopra al colle, del conversare di politica e insieme di Freud, e della presenza dei tuoi amici; devi esserci che rileggi una volta ancora, e chissà quante altre volte lo avresti fatto, “L’Infinito” – certo, come eri, della mortalità dei tuoi – come dicevi – “70 Kg di massa organica” capaci, però, di “concepire l’infinito e l’assoluto”.

Sei in questa brezza, nella canicola di ieri. Nei pensieri che penso. Nelle parole che parlo, che scrivo, che uso. E che non mi sembrano mai – come mi accade – inadeguate, lontane, ambigue. Non le tue, che sapevi usarle per curare, sì, ma anche per illuminare, donare, abbracciare. E dissezionare, anche. Con la punteggiatura che le vestiva come tu sapevi vestire di passione e di gioco le tue cose.

Alla Domus Aurea appoggiasti la mano sul muro di pietra, e lo sfiorasti con la fronte, e con la mente. Sei anche lì, sei ancora lì, ne sono certo. A sentire, come sentivi da “ateo impenitente”, il correre delle ere, dei secoli, delle persone che lo hanno attraversato. Dentro di te c’erano Ulisse, Gengis Kan, Federico II, Leopardi, Gramsci e Berlinguer. E tutti i miserabili della storia che onoravi continuamente. Tutti distinguibili, tutti tuoi, nella tua capacità incredibile di saperli far vivere. Come hai saputo far vivere la tua vita, raccontandola in quell’equilibrio perfetto fra cabaret e dolore. Intenso. Profondo. Distruttivo.

Sei nei tuoi racconti, nelle cose che lasci, nelle tantissime cose che hai scritto, nel tuo spiegare mai supponente. Nell’odore inconfondibile di casa tua: tabacco, legno, polvere, muffa, acrilici, libri. Nella collezione dei tuoi asinelli, nelle tue pipe, e negli scacchi. Nelle sigarette dappertutto. Nei mitili mangiati con coltello e forchetta. Nella tua paciosa galanteria. Nell’essere un “freudiano ortodosso” come ti piaceva definirti nel tuo lavoro (che rigorosamente facevi, non che eri). Nel rigore estremo, fino a farsi aspro, del pensiero, con cui sempre ti misuravi.

Sei nella materia che amavi, dove sapevi cogliere la storia, la vibrazione, la vita, la coscienza delle pietre. Nel tuo sentirti solo, come in una navicella alla deriva, eppure parte del tutto. Nei tuoi scazzi. Nei tuoi capricci. Nel tuo essere acuto, pungente e brusco. Sei ne La Stazione di Zima, lì eri e per sempre: nelle canzoni di Vecchioni, di Guccini, di Mercedes Sosa.

E sei qui. Mentre sto scrivendo. Mentre penso che sì, nella tua vita hai fatto più di abbastanza e la morte, certo, non ti ha trovato inerte.

Ci sei, Vinc, anche nel nostro perderci. In questo dolore che mi ha trovato crudo e solo. In questa distanza che non ho mai messo, perché non posso mettere distanza fra me e quello che sono. E quindi sto al gioco di questo dolore che mi abita e preme, come segno delle parole che hai piantato dentro. Le guarderò crescere con curiosità: anche questa curiosità – della vita e dell’umano – se guardo bene, è cosa tua.

Dove la memoria si fa soffio.

Angelo del Dolore. Presso il Cimitero acattolico di Roma.
Angelo del Dolore. Presso il Cimitero acattolico di Roma.

Cercavo l’Angelo del Dolore, incontrato la prima volta in qualche sussidiario delle elementari. Cercavo quell’emozione, impressa quando ero bimbo, quell’eco che riverbera ancora dentro di me, come una pulsazione fra gli anni: quest’abbandono completo, nemmeno più funesto, ma ultimo e straziato della figura divina riversa sul sepolcro. Riversa nel dolore. E quindi nell’umano.

Ho trovato questo. E altro.
Ho trovato molte delle cose che sono ora. Molte delle cose che porto con me. Riconoscendole.

Il verde brillante della piazza di Isfahan come il fogliame che protegge ogni lapide; ho trovato la memoria – sottile e viva, vivissima – custodita dal Piccolo museo del diario come quella che percorre i sussurri di ogni visitatore; la pace rinfrescante delle mie colline e delle mie montagne fra i rami alti dei cipressi centenari (le loro fronde sembrano abbracci del cielo); ho trovato la stanza accanto a cui accedere nella quiete e nella prossimità nella tante panche poste di fronte alle lapidi, che compone un gesto intimo così di comunione, e di dialogo, con le proprie anime e la propria.

E poi ho trovato i gatti. La colonia che -più di ogni altro umano- sembra essere nobile custode del luogo: con la dolcezza e l’eleganza dei suoi felini. Fra i sepolcri e nei vialetti; fra la ghiaia; in posa perfetta per quanti vogliono un loro ritratto. Ed, uno, -direi per incantesimo, credessi alla magia- in grembo a me. A prendersi le mie coccole, e a ricevere le sue fusa.

E poi il silenzio.
La voce della pioggia.
E, impercettibile, il soffio mia madre.

Se questa è vita

Danila scrive cose che spesso non condivido. Ma quando accarezza le corde del cuore, anche in temi difficili come questo, lo fa con una delicatezza, e insieme una forza, che riconosco esserle completamente proprie. Grazie di ogni singola parola, di ogni carezza. Di ogni pensiero, D.

[…]
Due mesi dopo, una mattina, il marito trovò Laura morta nel letto. Non respirava più. Era ancora rosea, esattamente come quando stava bene ed aveva, sul viso, un sorriso accennato.

Nei giorni seguenti, il corpo di Laura fu vegliato per due notti nella sua camera da letto. Eccetto per un leggero gonfiore, il suo viso rimase bello fin quando la deposero dentro la bara di mogano.
Paolo non partecipò al rito. Non perché avesse timore di sguardi, voci, mezza parole che si sarebbero certamente levate per la sua presenza, semplicemente perché – ne era convinto – Laura non era lì, in quel corpo morto. Detestava, anzi, l’esposizione della salma, la glorificazione inutile di quella carne che sarebbe presto marcita.
Laura non era lì; e non ne aveva alcun dubbio. Non era nel freddo della fronte, o nell’immobilità del petto; o nel grigio terreo di quella pelle, che invece aveva crepitato sotto le sue mani; o in quegli occhi orrendamente serrati che si erano accesi ogni volta che aveva accolto le sue parole.
Laura non era lì. La portava dentro; era stata, e avrebbe continuato ad essere una parte della sua vita. Un frammento di carne, ma di carne pulsante: come una gamba, un braccio, un occhio. Come le parole che le aveva insegnato, e che le affioravano continuamente alle labbra; come la capacità di meravigliarsi, o quella – che aveva acquisito lei nel corso degli anni – di perdonare e silenziare i propri tumulti.
Laura continuava a vivere nella sua mente, come nel gesto di scansarsi i capelli davanti gli occhi; o quello di roteare, mentre mescolava, il cucchiaino nella tazza di caffè; o quello di toccare il display del cellulare con il polpastrello dell’indice. Brandelli di Laura che si erano infilati sotto le unghie, nelle pieghe del cuore, nelle parole della mente, che non lo avrebbero mai abbandonato.
E nel dolore della perdita, nella vertigine di un nuovo inizio, questo non solo era la più efficace consolazione, ma era la certezza che avrebbe potuto continuare a viverla, e ad averla addosso, senza poter perderla mai.

Sorgente: Se questa è vita

L’Amore non finisce mai, Rob. Ciò che fa male, almeno a me, é parlarne al passato, come qualcosa che “fu” e mai più sará. Ma perché dovrei parlarne al passato se io amo mia mamma anche in questo momento, anche se sono 11 anni che non la vedo e non mi abbraccia fisicamente?

A Marco: from the churches to the jails.

Ti ho amato ed odiato come la tua passione, la tua forza, la tua tenacia esigeva. E come non ero affatto pronto a questo vuoto e a queste lacrime inattese, così ho solo grazie, oggi, per Te.
Grazie per ogni parola; per le grida e per gli scandali; per la ferocia del pensiero, e la delicatezza delle tue mani. Grazie per “le contraddizioni sono importanti”. Grazie di aver preteso che interrogassi continuamente la mia coscienza, e per averne richiamato continuamente il primato.
E grazie per avermi mostrato la solitudine e la vertigine della libertà.

Grazie di essere stato speranza, di essere stato leader nell’unico modo in cui si può esserlo: essendo modello e vero militante di partito. Grazie di non aver voluto mai svilire questa meravigliosa parola. E di avermi insegnato che la Politica può essere poesia ed emozione. Anzi: che solo la Politica che commuove è l’unica per cui vale la pena -davvero- lottare. Grazie per i tuoi occhi che, appunto, sapevano piangere. L’unico politico sulla terra a poterseli permettere, quegli occhi grandi e verdi da bambino.

Adesso, mi piace dedicarti questa canzone. Fra immensi potete capirvi. Credo che ti piacerebbe molto. Parla di carceri e di chiese. Luoghi che hai abitato sempre sempre sempre in tutta la tua vita, o loro, non si è mai ben capito, hanno meglio frequentato te.

From the churches to the jails.

Grazie ancora, Marco.
Grazie sempre per tutta questa bellezza.

Un solo imperativo: palla a Dawkins.

Darryl Dawkins, il re delle schiacciate.

Darryl Dawkins

Dawkins. 1991. Giunse a Milano una montagna di cm (211) e kilogrammi imprecisati, e comunque sempre troppi. Lo ricordo barcollare sotto il canestro, dove arrivava sempre qualche secondo dopo tutta la squadra, con quell’andatura stanca – le ginocchia valghe – da bradipo gigante. Ma in mezzo all’aria era assolutamente un macigno. Schiacciate, stoppate, rimbalzi: spettacolo puro. “Un solo imperativo: palla a Dawkins” terminava un pezzo della Gazzetta sulla semifinale di Coppa contro il Partizan. Quello stesso anno fece esplodere un paio di tabelloni con la potenza delle sue schiacciate: si appendeva a due mani e piegava il canestro paurosamente come un fuscello.

Darryl me lo ricordo molto bene. Nel 1991 (la sua unica stagione nella Milano di Pittis, Riva, D’Antoni), avevo 14 anni, e il basket un po’ lo praticavo. Sopratutto lo seguivo in Tv, sveglio fino a tarda notte per seguire le repliche con mia madre, appassionata anche Lei.

Le sue qualità di forza, da uomo grande e grosso, e di rispetto che incuteva e sapeva infondere, finivano per essere anche un po’ le mie. “Se può lui…”: una piccola rivincita, per un adolescente che si sentiva troppo grosso (e conseguentemente si faceva troppo piccolo), e sempre inadeguato come mi sentivo io.

Addio Darryl. E’ stato bello essere tuo tifoso. E sentirmi un po’ te, con una palla a spicchi in mano.

Paula Cooper, assassina della mia età.

Laura Cooper

La persona della del delitto non è quella della pena

 

C’è qualcosa che mi trafigge nella tua morte.
Qualcosa di crudele e tremendo. Come una domanda a cui non c’è risposta.
Non è la tua foto da ragazza, da assassina della mia età. Non è il sonno inquieto e scosso che feci nei giorni a seguire mentre rimestavo, dentro di me, la tua storia terribile. Non è l’incubo del coltello, della violenza, della signora anziana trucidata per poco più di niente.

No. E’ che mi sembra di aver perso qualcosa di me. Del mio io-bambino. Il germe della mia coscienza sociale, l’embrione di quel senso di speranza e riscatto che tengo insieme -a fatica- attraverso le stagioni della vita. La traccia di me, il filo rosso: da quando usavo l’elastico per tenere i libri, allo sbiancare dei capelli.
Sono i primi contatti con il Partito Radicale, la mia consapevolezza civile, politica, pubblica che si forma. Mio padre che mi parla di te, e io che ti sento subito sorella. La sorella che uccide. La sorella che aveva ucciso, e a cui consegnare una seconda possibilità.

Affiorano i ricordi. Un articolo al liceo sul giornalino scolastico. La pena di morte. Il fine pena mai. Il tema della redenzione e gli strumenti per farlo. La prima empatia che ferisce; i primi, in preda all’emozione, interventi pubblici. E, nel corso degli anni, le poche notizie, stralci di giornali, gli opuscoli sgualciti di Nessuno Tocchi Caino. Ad ogni tua foto, dove ti vedo più grande, è come ricevere la conferma della bontà del mio percorso. Poi Internet, in cui di tanto in tanto ti cerco. Il lavoro di cuoca. Infine la tua foto di donna libera, con quel gran sorriso, e l’ombretto azzurro e delicato. Ventotto anni dopo. Ventotto. Anni. Dopo.

Oggi mi accorgo che senza di te non sarei stato quello che sono. O forse solo un po’. Oggi, vorrei che tu potessi leggere queste mie parole. Quando invece posso solo piangerti.

paula-cooper-post

Un giorno ci rivedremo

Un giorno ci rivedremo.

Un giorno ci rivedremo.


A D.

Un giorno ci rivedremo.
Eppure tu riassumerai sempre la mia vita,
come se fossi l’unico,
come se fossi l’ultimo.
Come una gazza avrò infilato il becco
in mille tronchi,
a cercare il mio rifugio migliore.

E quando anch’io volerò lassù,
cercandoti di stella in stella,
ci rivedremo.

Sentirò la vibrazione del tuo cuore
che incrinerà l’involucro perfetto
del mio mondo.
Così colmerò il vuoto del tuo odore,
berremo il nostro vino,
e sarà festa.
Mi regalerai di nuovo il tuo sorriso,
e vedrò il tuo volto in una luce
brillare più forte del dolore.

E allora nemmeno la morte,
così debole e distante,
ci potrà separare;
quando finalmente resterò con te,
papà.


Inspirata da Irene, che ringrazio tantissimo.

La morte di Stella Raphael

Follia di Patrick McGrath

Follia di Patrick McGrath

Follia è un romanzo di Patrick McGrath. Ben scritto; con i passaggi giusti per tenerti lì. Non mi aspettavo la morte di Stella (protagonista insieme ad altri). L’ho rielaborata – come un lutto privato… – come segue.


Mi trovarono riversa nel letto, con indosso ancora il mio abito nuziale. Le coperte ancora calde, quel velo di cipria, il sorriso ebete. E la mancanza di lui fra le dita. Era poco oltre mezzanotte, quando Peter spalancò la porta, il respiro corto preso nella morsa del panico. Misurò i passi, calmò come poté l’affanno, e si avvicinò al letto. Vidi la disperazione nei suoi occhi, un tremolio del labbro; un dolore quieto e sincero. Fece per abbracciarmi; mi portò al petto; la mia mano scivolò inanimata sul suo grembo. Il cerchio della luna -le striature di una perla- illuminò il mio collo bianchissimo; le labbra, esangui, appena distese in un sorriso. Devo essergli sembrata bella, trasfigurata nella quiete della morte; nella rinuncia agli inganni e alle costrizioni che mi ero inflitta: un ordito solido e perfetto, un bozzolo inespugnabile. La finzione era nella curva dura del mento, nel lampo vigile dei miei occhi, nei passi misurati. Nelle mie notti inquiete. Era parte di me, ormai; senza che nessuno se ne fosse mai accorto. Mai concessa un sussurro, né un gesto di troppo; ogni parola ponderata, ogni sguardo discreto e contenuto. Ho voluto la morte, per rendermi libera. Dalla fantasia di lui, dalla sua mancanza. Ma sopratutto da questa finzione continua, asfissiante. Imposta a me stessa o impostami dal mondo; rigida e certa. E’ stata la vibrazione di un diapason: mentre mi perdevo nell’ultimo sonno sentivo incrinarsi quest’involucro bianco, con un intreccio che si allargava dal centro del ventre; le membra distendersi, un benessere caldo. E’ sopraggiunta regalandomi questo sorriso, che Peter mi restituisce in una carezza. Sincero, come non lo assaporavo da tempo.

Ciao Bovo.

Vigor Bovolenta in azione

Stamattina sono rimasto con il cappuccino a mezz’aria, stordito.
“Lutto nella pallavolo: è morto in campo Vigor Bovolenta” diceva i tg radio. Bovo. La mia età; i ricordi della mia pallavolo.
In un attimo tutto quel periodo mi è tornato negli occhi: abbiamo giocato nello stesso periodo e condiviso la stessa emozione, la stessa gioia per la pallavolo. Facevi parte della seconda generazione di fenomeni, quella che ha vinto Coppa del Mondo e mille Word League.
Ci ho messo un po’ a riprendermi… “Bovo, cazzo…” e la barista mi ha guardato. Poi ho cercato il tuo volto sul giornale. Eri nelle pagine interne. “Si è accasciato sul terreno di gioco dopo la battuta, colpito da un infarto.” Io ho smesso di giocare, tu hai continuato. Ho visto i tuoi capelli farsi bianchi sul parquet, come è accaduto ai miei…
Vigor Bovolenta… Eri uno dei modelli della mia generazione. Il modello per i centrali. La tua elevazione, la tua grinta. E, si, anche quei movimenti a tratti sgraziati, eppure così efficaci. Così potenti. Di una fisicità prorompente. I pallavolisti si sentono un po’ fratelli sempre. Per il fatto di condividere, segretamente, la consapevolezza di vivere e giocare lo sport più bello del mondo.
Ti ricordo giocare con la maschera, forse proprio in quelle olimpiadi a cui appendesti al collo la medaglia d’argento. Ricordo la tua grintà feroce, il numero sedici, il tuo sorriso buono, nascosto da quel pizzo che celava il ragazzo e il papà. Ricordo il tuo braccio alto in battuta, che usavi come un mirino. E l’istinto del muro. Che non si impara, si ha: le braccia, forti, aldilà della rete. E l’aeroplanino, irriverente, in faccia a Despaigne.

Adesso apprendo che avevi scelto di rimanere a giocare in B2, perché ti piaceva il progetto della tua società, ma anche per la tua famiglia, per fare da chioccia ai giovani pallavolisti. Da lontano, lo sei stato un po’ per tutti: un riferimento buono. E se è vero come è vero che ci portiamo i nostri modelli nel cuore, dentro di noi, oggi muore qualcosa.

Alla tua famiglia, a tutta la pallavolo, tutto il mio cordoglio.
Che la terra ti sia lieve, Gigante.


Anime salve. Anime uniche

Ogni volta che mi sento come mi sento in questi giorni, penso a questa canzone. Devo a Laura di avermela fatta conoscere.
Anime Salve.
Chi conosce Faber meglio di me, sapranno che il brano parla di anime solitarie, nella precisa accezione etimologica dei termini. Io ho deciso che no. Anime Salve parla del concetto di salvezza, ma in chiave del tutto laica: lasciare la vita, stare per farlo, abbandonandosi all’idea di aver fatto tutto il possibile. Aver salutato chi si doveva, come si doveva. Aver detto “Ti voglio bene” alle persone ai cui lo vogliamo; aver speso la nostra vita nel fare cioè che si sentiva di dover fare, senza sprecare tempo. O farlo minimante. Aver fatto la propria vita, aver ricercato la propria strada.
Non quella che gli altri ci mettono addosso.

Forse solitudine e salvezza significano la stessa cosa, a ben guardare. La propria salvezza passa attraverso la propria solitudine: di concepire la propria unicità, in cui siamo soli. E perseguirla. Al massimo, dal nostro prossimo, possiamo chiedere compagnia. Compagnia nel viaggio della vita, compagnia viva e calda – ma non inopportuna – nei parole, nei gesti. Nelle emozioni.

E, infine, la disperata speranza che quella bella compagnia, che il restare nel cuore degli altri anche dopo la nostra morte, è tutto ciò che possiamo per rimanere.