Categoria: Eventi

Quando i giganti si mettono di lato.

Che magia.
Solo il Prof poteva. Solo il Prof poteva mettere così a disposizione la sua arte.
Vecchioni e Alfa interpretano “Sogna ragazzo sogna”. Davvero sono l’inizio e la fine: lui cantautore immenso piccolo e dolce, lui imberbe ragazzo alle prime esperienze. Iniziano, e Alfa, al primo cambio, infila gli occhi nella figura di Roberto come si vede qui: con tutta la gratitudine e l’amore che si può per un maestro. Il duetto continua; non è particolarmente efficace: c’è questo cantare cantilenante di Alfa che suona addirittura goffo.

Poi arriva la magia, proprio alla fine, viene annunciata da un sorriso sornione, sui versi:

“[…] Manca solo un verso
a quella poesia,
puoi finirla tu”


E lascia Alfa rappare dei bellissimi nuovi versi, che completano magnificamente la canzone, e quella poesia: un intarsio perfetto incastonato in un quadro già preziossimo.
Roberto si mette di lato, stringe i pugni e chiude gli occhi. E lì che ascolta.
Che sembra dire, in silenzio: “Ascoltatelo anche voi”.
Riconosce Alfa, la giovinezza, e l’arte del suo collega. Mettendo a disposizione la propria.
E’ un messaggio dolce e toccante. Che emoziona.

(Ho ascoltato tantissime volte questa canzone. E tantissime volte – da ragazzo – mi sono chiesto come quella poesia potesse concludersi. Senza mai avere il coraggio di scrivere nessun verso).

The Infinite

Lo scorso anno Patti Smith, nel suo concerto a Roma, ha declamato L’Infinito di Leopardi, a significare il rapporto stretto e profondo con la regione Marche.

Ci sono tantissime traduzioni in inglese di questa meravigliosa poesia. Patti Smith ha usato quela di Roland Rogers. Eccola:

This hermit hill was always dear to me,
with its hedgerow hiding
the last horizon in so many places.
But as I sit and gaze and conjure
unending spaces,
unearthly silences,
and utter sillness,
my heart almost stops in fear.
When… storming through the leaves
the wind brings me a voice to set against
the infinite silence; and eternity
and seasons past, are summoned
to breathe in this moment and sound.
And my thoughts drown in this vastness,
where to founder is sweet and gentle in this sea.

Disobbedire. Per non disobbedire a sè stessi.

L'attrice e regista Sibilla Barbieri
L’attrice e regista Sibilla Barbieri

Avete visto i video, ascoltato i podcast.
Quando a Sibilla si rompe la voce, a me si rompe il cuore.

Lei parla di sè, in uno stato di salute terribile, e si commuove quando parla della sofferenza degli altri come fosse la propria: “Io posso, e gli altri come faranno?”.
Ha un tremolio nella voce, trattiene il fiato con i denti. A volte la sua commozione tracima, ma ha questo portamento regale e questi occhi che ti puntano al cuore. Azzurri come quelli di Pannella: anche quelli di Sibilla interrogano le nostre coscienze. E ce le pongono di fronte.

E’ la coscienza di Sibilla contro la legge ingiusta. E’ la nostra coscienza contro la legge irragionevole: l’azione primaria per affermare nuovi diritti. “Perché è giusto”, dice lei. E sembra una verità solenne, antica come la vita.

Se amate la Politica, ascoltate il suo appello alle istituzioni, poi bruciate tutti i giornali pieni di politichese. I destinatari dovrebbero rendersi degni dell’interlocuzione di cui Sibilla li ha onorati. Rendersi degni della sua fiducia. Gli stessi che pretendono continuamente di giudicare le vite altrui, il dolore altrui (“Io mi trovo molto a disagio sul fatto che abbiano giudicato il mio dolore”, dice). Ma non smetteranno. E quegli occhi azzurri li inchioderanno ancora.

Oggi sappiamo che Sibilla aveva pienamente diritto di scegliere sulla propria vita. Era chiaro anche ieri, e prima della sua morte. E’ morta invece in esilio, strappando al suo corpo l’ultimo sforzo, per quel volo, e per quell’ultima azione. La violenza delle istituzioni non è più solo nella colpevole indecisione legislativa, ma anche negli irresponsabili tempi per richieste che richiedono risposte immediate.

Voglio ringraziare Sibilla. Per la sua lotta Politica; per averci messo a disposizione il suo dolore e la sua malattia per essere spesa per i diritti di tutti; grazie di questa eredità.
Grazie a suo figlio; alla sua famiglia. Alle 50 persone (“associazione a delinquere o difensori del diritto”, come ipotizzato da Cappato) iscritte a Soccorso civile. Grazie a Filomena, a tutti i Marco coinvolti, commossi, silenti e dolenti.
Tutto questo non è gratis. I costi personali ed emotivi sono altissimi.
Dovremmo ricordarcene sempre.

Roberto Vecchioni, l’ultimo maestro rimasto.

Roberto Vecchioni allo Squadre Music Festival, Montegiorgio
Roberto Vecchioni allo Squadre Music Festival, Montegiorgio

Sono stati diversi i momenti intensi, due giorni fa, durante il concerto di Roberto Vecchioni.

E’ salito sul palco alle 22 esatte, attaccando con la splendida “Ti insegnerò a volare” e ricordandoci, quando non sappiamo “correre e nemmeno camminare”, l’importanza di essere visti, sorretti e disegnati.

Ha una voce un po’ più flebile il Prof, ma la sua mente è sempre acuminata, e il suo modo di raccontare e raccontarsi sempre piacevole. Dice cose importanti, sull’amore soprattutto; sul suo amore, soprattutto; le intervalla con ironia, nostalgia e senso del presente, disegnando questo caleidoscopio di colori dove la musica è parte del racconto, è parte della vita che ha vissuto e che vive.

“Non ci sono più maestri” – dice – “io io ne ho avuti tanti”, e inizia El Bandolero Stanco. E a me viene in mente quel viaggio con Vincenzo, dalle Marche fino a Roma, solo per strade urbane, ad ascoltare questi nostri autori. Vincenzo sapeva interpretarlo magnificamente, aggiungendo aneddoti ad ogni canzone, e sapeva, forse di più, emozionarsi davanti alla sua poesia e alle sue parole. Davanti al treno de La Stazione di Zima, ad esempio. Testimoni di maestri, passati di mano in mano. Che mancano tanto.

E poi ci sono state quelle due/tre canzoni in cui la recente storia personale (il suo rapporto con la morte, e la morte terribile di suo figlio solo qualche settimana fa) ha invaso la scena. “C’è una madre distrutta” aveva sussurrato su qualche canzone prima. E ogni volta che parla di Daria, per tutta la sera in questo continuo e bellissimo omaggio alla persona che è con lui “quasi” da sempre, lo fa con grazia e ironia. E consapevolezza: “Che fortuna che ho avuto”.

“Siamo al culmine”, dice. “Devo farla, perché l’artista è colui che racconta. Senza non è niente”. E canta Le Rose Blu. In questo che chiama “dialogo, non una preghiera”, dice a Dio per suo figlio: “Fagliele rifiorire”. E mi ritrovo anche io con questo pensiero eretico, eppure così umano. Che Dio avrebbe potuto, avrebbe addirittura dovuto. Invece c’è solo questo dolore, il suo e della mamma di Arrigo, che ha reciso la corolla facendo rimanere solo il gambo di spine. Arriva al termine il Prof, emozionato e piangente, piegato in due. Attraversando quel quel dolore, senza sottrarsi a nulla. Senza sottrarsi mai.

Un momento prima di iniziare questa canzone, dice una frase di grande tenerezza. Ha detto: “Adesso questo momento di intensità, poi proverò a farvi ridere”. Proverò a farvi ridere. Come se avesse voluto scusarsi per averci invaso della sua emozione e del suo dolore. Come se avesse voluto aver cura di noi; dirci che quel dolore sarebbe passato, e sarebbe tornata la gioia. Quella che per tutta la serata ci ha dato: gioioso della vita senza finzione, addolorato con la stessa vita che gli tolto suo figlio. Ma succede così per tutte le sue cose: hanno la capacità di farsi ampie, spesso doppie, a volte contrastanti, ma sempre intrecciate dallo stesso filo rosso dell’amore.

Una carriera lunghissima, 53 anni a scuola, 80 anni da poco compiuti. Un ultimo album con tantissime cose dette, musicalmente e non e uno spettacolo capace di far comparire sulla scena Ulisse, Vincent Van Gogh, Leopardi, la combattente curda Ayse Deniz Karacagil. Non so chi altri sia stato così intenso da intrecciare letteratura e poesia. Letteratura, musica, poesia e amore così strettamente alla propria vita.

The Wrecking Band. Musica ed emozioni vicini alla luna.

Diego Mercuri e la Wrecking Band
Diego Mercuri e la Wrecking Band

Ad un tratto è apparsa la luna a salutare Diego e i ragazzi. Poi è salita fin nel nero della notte per essere il segno del buon auspicio che tutti gli auguriamo. Dal terrazzo di Montefalcone, con una veduta mozzafiato sulla valle, credo non poteva esserci luogo migliore per festeggiare i 10 anni della Wrecking Band. Ormai è una macchina rodata che suona le proprie canzoni e le proprie cover con precisione, con gusto, divertendosi.

La prima volta che ho ascoltato Diego era un agosto di una decina di anni fa. Era issato, da solo con la sua chitarra, sopra ad un palco al lato di un campo da calcetto e di non so quanti bimbi scalmanati completamente disinteressati a lui e alla sua musica. Eravamo in pochi ad ascoltarlo: quelli che cercavano musica di Bruce per lenire la propria astinenza.

Ora ha un proprio pubblico, ha affinato la sua tecnica, ha 4 moschettieri (forse 5) con cui condivide ed esprime la propria arte, ha scritto canzoni bellissime che lo narrano e in cui ha messo il cuore, porta la gioia e il dolore della musica a chi lo ascolta. Ha fatto molta strada, ne farà tanta altra, senza perdere nulla della semplicità di cui è capace.

Stasera ha cantato una versione da brividi di The Sound of Silence che spero si possa trovare presto online. C’è dentro tutto il suo genio, la sua arte, e questa sua voce che si trasforma davanti ad un microfono: piena della capacità di emozionare.

Springsteen, qualcosa di intimo come la morte.

L’emozione, giovedì a Ferrara, è arrivata quando l’hostess mi ha stretto al polso il braccialetto del pit. Era qualcosa a cui non avevo pensato, e quella fascia mi ha svegliato dal torpore: sei ad un concerto di Bruce, puoi pensare solo a divertirti.
Attendevo gli uomini-ragno inerpicarsi lassù al margine del palco. E invece no: la band è entrata qualche minuto dopo le 19:30 rompendo una routine che pensavo fosse confermata. Non sarà la prima rottura.

Per la prima volta ho avuto l’impressione che Bruce abbia “tenuto per sé” qualcosa, della consueta – ed anche giovedì confermata – generosità sul palco. Abbia deciso per una lunga monografia intorno a se stesso, abbia deciso di farsi ascoltare ma di più abbia voluto farsi comprendere. Bene, molto bene. Sono una novità i testi e lo speech tradotti: con cui racconta il suo rapporto con la giovinezza, con gli anni di una carriera lunghissima. Con la morte. Forse è la prima volta che Bruce canta una biografia così potente, con sè stesso così al centro: senza personaggi a cui appoggiarsi, senza le scene cinematografiche che conosciamo, senza proiezioni: parla di sé in prima persona, di come è diventato l’uomo e l’artista che è; parla di come si sta relazionando alla (sua) morte, perfettamente descritta con l’immagine potente del treno e della luce.

Certo. Ha confezionato uno show diverso da quello a cui eravamo abituati (il juke box, la festa continua, il suo concedersi incessantemente ai fan), ma io penso che Bruce abbia messo in conto di regalarci questa “mancanza”. Perché sente di avere sempre meno tempo, e sente di voler essere compreso, in modo non banale. Questa sua umanissima fragilità a me stupisce e commuove. Ieri pensavo a “Guarda che non sono io” di De Gregori. Mi sembra che Bruce, fra le note (fra “Last man standing”, e la chitarra issata su Backstreets), senza rimpiangere nulla, volesse dire: “Sì, so farti divertire e commuovere. Ma ecco un pezzo di me, tienilo e ascoltalo. Abbine cura”. Abbine cura, addirittura.

Non credo sia un addio. Ha ricordato sempre che continuerà a fare live (con spettacoli organizzati in modo diverso, magari) e ad avere una relazione privilegiata con i suoi fan. Ma in questo periodo vuole che la comunicazione sia di un certo tipo: più riflessiva, più intimistica. Vuole che le sue parole arrivino per restare. E’ cambiato, sì, forse. E questo adattamento gli è conforme e necessario. Io l’ho trovato un regalo bello e grande.

Non parlerò di musica. Non occorre. Non è una questione di bravura, di qualità, di band che sembra un organismo perfetto. Nè della sua voce, o di tutti quelli – al primo concerto – che mi raccontano la propria meraviglia. Non è importante. E’ importante quello che ha creato (con la gioia, la malinconia, l’energia solo sua) nel corso degli anni. E’ importante quel feelling. Il suo desiderio di dircelo.

Per ultimo, solo una cosa sulla polemica intorno l’alluvione. Si, non ha detto niente. Ma io preferisco giudicarlo non per qualcosa in cui (forse) è mancato ma per tutte le volte che, invece, ha espresso la sua solidarietà, con le parole e il suo patrimonio. Non sapremo mai se è stato un “errore” o una scelta volontaria. Io avrei preferito altro, ma non cambia nulla nella sua storia. E nella stima che ho di lui.

“Non devono”. Il proibizionismo uccide sempre.

Ministro Piantedosi

“Non devono partire”.
“Non devono drogarsi”.
Per giunta: “Non devono morire”.

Il proibizionismo uccide e produce dolore. Un dolore sordo perché inspiegabile, perché contro scelte private. E continuerà a farlo. finché non ci saranno soluzioni legali, di diritto, che le persone possono utilizzare. Vale per la droga, l’immigrazione, il fine vita. Vale sempre.

Uno stato che sente di difendersi da comportamenti privati è uno stato etico (e non è un caso che nella conferenza stampa di ieri Piantedosi indichi comportamenti “morali”, secondo la propria moralità). E’ uno stato etico tout court, e destinato a fallire perché si pone lontano dalla ragione per cui, modernamente, è stato pensato: limitarsi a difendere le libertà di ognuno.

In Italia di politici (progressisti o conservatori) che pensano che la libertà debba avere una motivazione giustificata dallo stato, un confine oltre a quello unico del privato dell’altro, sono tanti e troppi: da destra come a sinistra lo sfascio dall’accordo Italia-Libia di Berlusconi e di Gentiloni; i voti del PD contro la Cannabis legale; il silenzio continuo sull’Eutanasia; Calenda che fa il ventriloquo a Piantedosi (“fermare le rotte illegali” senza proporne di legali) sulla tragedia di queste ore. E mi fermo qui per carità di patria.

Sono tutti potenti impotenti di fronte alla coscienza di ogni cittadino, piccoli dittatorelli insulsi che credono di poter imporre la propria morale a ogni migrante, a ogni persona che aspiri a qualcosa di meglio per sé, o che vive (semplicemente vive) un proprio privato comportamento: è sempre la violenza di chi paventa la legge e il carcere contro il proprio legittimo desiderio, contro scelte private. Perderanno sempre. E’ solo questione di tempo.

Per il momento è tutto così imbarazzante.
E’ tutto così mortifero. Tragico. Violento.
E inaccettabile.

PS. Salvini mi ripugnava nel suo essere viscido.
Piantedosi mi terrorizza, nella sua cattiveria ottusa.

Baraye

Per la libertà.

Per il desiderio di ballare nelle strade.
Per il timore di baciarsi in pubblico.
Per mia sorella, per tua sorella, per le nostre sorelle.
Per cambiare quelle menti corrotte.
Per la vergogna della povertà.
Per l’augurio di una vita normale.
Per i bambini costretti a cercare nella spazzatura, e per i loro sogni.
Per questa economia di regime.
Per quest’aria inquinata.
Per la via Valiahd e i suoi alberi consumati.
Per l’estinzione del Pirooz.
Per i cani randagi banditi.
Per questo singhiozzare inconsolabile.
Per non ripetere più questo momento.
Per un viso sorridente.
Per gli studenti, per il loro futuro.
Per questo “paradiso” forzato.
Per gli intellettuali imprigionati.
Per i bambini afghani.
Per tutti questi, troppi, “per”.
Per tutti questi slogan senza senso.
Per il crollo di questi fragili edifici.
Per sentirsi in pace.
Per l’alba dopo queste notti scure.
Per gli psicofarmaci e l’insonnia.
Per l’uomo, la patria, la prosperità.
Per quella ragazza che desiderava essere un ragazzo.
Per la donna, la vita, la libertà.

***

Shervin Hajiaghapour è stato arrestato per questa canzone, poi liberato su cauzione.

La traduzione è mia, dall’inglese.

Chain of our sins: il racconto di Bruce.

Sign of brotherhood. Chi ama Bruce sa che di quel “chain of our sins” è intrisa tutta la sua musica. Tutta la sua arte. Tutta la sua storia. Tutta la sua vita.
C’è quel senso di redenzione e sconfitta, di breve successo e bruciante malinconia in ogni nota: la misura non solo della distanza dal sogno americano (come disse una volta) ma la distanza di quello che è, è voluto profondamente essere, scegliendo differenziazione, rottura, indipendenza. La sua distanza dal gorgo “dei peccati”. Un gorgo dove l’amore di suo padre, e per suo padre, era la cifra della difficoltà e del dolore. E’ stato un lungo percorso rendersene conto.

Potessi, gli direi che gli voglio bene. Potessi lo abbraccerei quando raccontando quello che racconta, si emoziona. E piange.

Questo è l’intro a Long Time Comin’, live al Kerr Theatre, a New York, NY nel Luglio 2018. Questo il testo trascritto in inglese.

“Erano gli ultimi giorni della prima gravidanza di Patti. E ricevo una visita a sorpresa da parte di mio padre, a casa mia, a Los Angeles. Aveva guidato 500 miglia, senza preavviso, per bussare alla mia porta. Questo è il suo stile. Quindi, alle 11:00, ci sediamo nella sala da pranzo illuminata dal sole e ci prendiamo delle birre del mattino; questo è il suo stile. Questa è la colazione dei campioni di mio padre.

Mio padre, che non è stato mai un uomo loquace, giusto, ad un tratto dice: “Sei stato molto buono con noi”. Annuisco, era la verità, e lui continua: “Ed io non sono stato molto buono con te”. La stanza mi sembrò si fermasse. Rimasi shockato: l’inammissibile veniva per la prima volta riconosciuto [the unacknowledgeable was being acknowledged]. E se non lo avessi saputo, avrei giurato che mi stesse chiedendo scusa in qualche modo; così era.

Quindi negli ultimi giorni prima che diventassi padre, mio padre veniva a trovarmi per avvertirmi degli errori che aveva commesso e per avvertirmi di non farli con i miei figli. Liberarli dalla catena dei nostri peccati, di mio padre e miei e dei nostri padri prima, affinché siano liberi, di fare le proprie scelte e di vivere la propria vita. Possiamo essere fantasmi o essere antenati nella vita dei nostri figli. O poniamo i nostri errori, i nostri fardelli su di loro e li perseguitiamo, oppure li aiutiamo a deporre quei vecchi fardelli e li liberiamo dalla catena del nostro comportamento imperfetto.

E come antenati, camminiamo al loro fianco e li aiutiamo a trovare la propria strada e un po’ di trascendenza. Mio padre, quel giorno, mi chiedeva un ruolo ancestrale nella mia vita dopo essere stato un fantasma per molto tempo. Voleva che scrivessi una nuova fine alla nostra relazione e voleva che fossi pronto per il nuovo inizio che stavo per vivere. È stato il momento più bello della mia vita con mio padre, ed era tutto ciò di cui avevo bisogno

Poi è iniziata Long time comin’:

[…] It’s been a long time comin’, my dear
it’s been a long time comin’
but now it’s here

Well my daddy he was just a stranger
lived in a hotel downtown
when I was a kid he was just somebody
somebody I’d see around
somebody I’d see around

Now down below and pullin’ on my shirt
I got some kids of my own
well if I had one wish
in this god forsaken world, kids
it’d be that your mistakes would be your own
yeah your sins would be your own […]

Nanci Griffith, e quegli occhi voraci di mondo

Ho conosciuto Nanci Griffith in una delle tante peregrinazioni intorno alle cover cantate da Bruce. A decine: un mostra straordinario per omaggiare colleghi famosissimi, o altri meno conosciuti. E del resto, io non ho mai avuto molti altri modi per conoscere altri artisti.

Bruce aveva provato “Gulf Coast Highway” di Nanci in un sound check nel Tunnel Of Love tour. Credo non la canterà mai ufficialmente; ma ci sono bootleg dove è possibile ascoltare quella performance. C’è Patti e c’è questo “La la la” che scioglie le spalle, che cerca di ridisegnare leggerezze. Anche se è un sound check, anche se è del tutto informale. E c’è questa strofa arpeggiata con la chitarra che somiglia vagamente a “My beautiful reward”.

Mi piacque. Pensai che Bruce doveva essere affascinato da un testo molto – troppo simile – ai suoi: l’hard job, le rotaie, le highway, i cofani blu, i perdenti. E dalla sua voce da “andate tutti a quel paese”, come avrebbe detto Baricco di lui anni dopo, e “perfetta per finire”.

Dopo quell’ascolto presi ad ascoltare Nanci Griffith per un po’ di tempo. Mi sembrò – ma sono valutazioni che non sapevo fare allora ne adesso – un talento cristallino; mi ispirò sicuramente per il suo essere un’artista generosa, vicina al suo pubblico, ma soprattutto con tante storie “americane” da raccontare. Da “Furore” a Roth. Dal country a folk. Dall’amore alla fuga. Sempre con quel sorriso un po’ dimesso, un po’ fuori fuoco; quegli occhi grandi voraci di mondo. E quella voce che invece rendeva sacra ogni nota che accarezzava. Con la delicatezza e l’intensità di un cordoglio.

Ho scoperto solo ieri che lo scorso anno Nanci Griffith è morta. Da ieri, ho ripreso ad ascoltarla. Chissà che le sue canzoni non mi dicano altro, oltre a quello che mi raccontarono 30 anni fa. E quel cordoglio ora non sia solo malinconia.

Sentita questa che bella.

Di vaccini, Covid, paura. E fiducia.

Fiore del Vaccino Covid-19
Fiore del Vaccino Covid-19

Fermo, hub vaccinale, sala d’attesa.
Io ho addosso il solito senso di gratitudine. E un po’ di debito, e un po’ di meraviglia.
Un’infermiera controlla i documenti a tutti gli utenti.
Si avvicina ad una coppia: padre e figlio. Carnagione scura entrambi; baffetti composti il primo; voragini nei jeans del secondo.
“E’ minorenne” – il padre anticipa l’infermiera e, a voce bassa – “è diabetico” aggiunge indicando il figlio.
La signora scruta il ragazzo da sopra i mezzi occhiali. Fa: “Insulina?”
“Sì”.
“Ok” – dice risoluta – “scrivi qui i farmaci che prendi”. Il dito indica una riga infondo al foglio.
Il ragazzo si alza, si appoggia ad un banchetto.
Fa per scrivere; la penna rimane a mezz’aria.
Quindi infila irrequieto gli occhi nel cellulare per cercare il nome del farmaco.
Mi avvicino.
Gli elenco 4/5 nomi commerciali dell’insulina. “Lantus, esatto!” si illumina. E scrive.
Poi mi ringrazia. “Me l’hanno cambiata da poco, non ricordo mai il nome”.
“Hai paura?”, attacco.
“Sì, un po’” – mi sorride impacciato – “Ma se volevano sterminarci tutti potevano iniziare da noi. No?”.
Rido della battuta acuta. “Io ho paura tutte le mattine, quando mi pungo” scherzo, ma non del tutto.
Ride anche lui: “Ma abbiamo fiducia!”, e gli si illuminano gli occhi.
E io penso che abbia ragione lui.
Che – alla fine – non ci salvi la scienza.
Forse nemmeno il vaccino.
Ma la tonda, piccola, fragile, febbricitante fiducia che riponiamo negli altri.
E la quantità di cui ne disponiamo è la stessa che rivolgiamo verso noi stessi.

***

Probabilmente io ho uno sguardo su questo tema, molto parziale e molto distorto.
Ma non possono non fidarmi dei “miei” diabetologi, degli infermieri che lavorano preso il reparto; e per estensione le persone che conosco e lavorano nella sanità.

Non posso non fidarmi delle persone che si prendono, si sono prese, e si prenderanno cura di me.

Perché – non una sola volta – mi hanno restituito alla vita; hanno accarezza la mia fragilità; mi hanno fatto vedere un me che non vedevo.

Nel mio caso, la fiducia -di un diabetico da 20 anni- è qualcosa di vitale per un motivo molto chiaro: senza sarei morto.

Avessi coltivano diffidenza sarei, semplicemente, morto.

Genesio di Roma, attore e mimo.

Licio Genesio aveva 19 anni quando fu martirizzato sotto Diocleziano. Nell’iconografia Cristiana, il Santo è raffigurato giovanissimo qual era, a volte anche un po’ punk, con in mano uno strumento musicale o una maschera.


Genesio di Roma era un attore e un mimo. Ho conosciuto la sua vita in una domenica di fine estate nella piazza di San Ginesio, proprio quando le ombre si allungano e le rondini cantano i loro acuti. Sotto la sua formella intagliata sulla facciata della Collegiata del paese, la compagnia Teatro A Canone, in uno stile picaresco, proponeva la sua storia.

Li vedete -magnifici- nelle foto.

A metà spettacolo ci hanno rivelato che quella era una scena improvvisata: il cortile dove si sarebbero dovuti esibire era (maldestramente) occupato. Avevano quindi voluto essere lì, in piazza, mettendo insieme un pubblico anche di curiosi e di circostanza. A metà spettacolo, quello che sembrava essere il capo comico -e interpretava Genesio-, copione alla mano, ha chiesto che ci avvicinassimo al piccolo palco, e ha iniziato a raccontare a braccio la storia.
Genesio attore. Genesio pagano. Genesio che accetta di mettere in scena il battesimo cristiano: non per celebrare il gesto sacro, ma per farne scherno, come richiesto da Diocleziano stesso.


Genesio che inizia a frequentare le comunità cristiane delle catacombe per conoscerle meglio ed entrare maggiormente nelle parte. Genesio -il racconto si perde fra la leggenda e l’agiografia- che, proprio durante la prima del suo spettacolo, ha una visione e si converte; Genesio che riferisce la propria fede all’imperatore stesso; Genesio che viene fatto decapitare seduta stante. Genesio che viene rinnegato dai suoi amici e dai suoi commedianti, come era successo per Cristo.


In una situazione Pirandelliana, dove attori e pubblico si intrecciano, creando un unico tessuto di emozioni, mi è sembrato un momento perfetto, nella sua precarietà. Probabilmente fossimo stati nel cortile iniziale, non avrei goduto di quella commozione, di quella vicinanza e di quella prossimità.

Un falco. Nel cielo dello scoutismo.

L’ho cantata in silenzio, avvolto dal buio, con i barbagli del fuoco a rendere un po’ meno nera la notte. Con il bosco a due passi, il freddo che pizzicava sotto il maglione, le stelle a guardarci, i visi stanchi e felici per giornate trascorse in giochi serissimi. E quando fiamme e chitarra si spegnevano, e braci e segni sui polpastrelli erano l’unica cosa che rimanevano di quel canto, l’intimità si faceva ancora più calda, ancora più silenziosa. Silenzi da ascoltare, con le orecchie appuntite come lupi. O dove rimestare quel ritornello all’infinito, facendolo scorrere piano fra pensieri e labbra.

Me la sono passata in bocca chissà quante volte, anche questa estate. Anche ora. Che esco dall’ufficio e c’è con me solo il frinire dei grilli. O l’occhio chiaro della luna. Grilli, luna e silenzio pescano nel ricordo. Una traccia che percorre gli anni, sempre uguale; una nenia dolcissima che torna a pacificarmi: “Un falco volava…”. Come un fiume carsico, tanto invisibile quanto presente, a cui posso sempre attingere.

Scopro solo ora che uno dei brani scout a cui sono più affezionato, è di Battiato. Composta nel 1971.

Che meraviglia. Che emozione.

Commiato

“Nel vento”, dicevi.

E io non faccio nessuna difficoltà a sentirti nell’aria dolce di questa sera di fine estate. A sentirti in questo sole estivo, che oggi è stato abbagliante come le vele che ti piaceva issare in terrazzo; o nell’odore delle pagine di questi libri, antichi e lisi. Come erano le tue cose: levigate ogni giorno, si facevano più affilate e più vaste.

Non faccio nessuna fatica ad accorgermi di te nell’ombra di questa piazza; devi esserci, in qualche vicolo, in qualche angolo, che ti meravigli, come sapevi fare con i tuoi occhi da bambino, della luna che sta sorgendo sopra al colle, del conversare di politica e insieme di Freud, e della presenza dei tuoi amici; devi esserci che rileggi una volta ancora, e chissà quante altre volte lo avresti fatto, “L’Infinito” – certo, come eri, della mortalità dei tuoi – come dicevi – “70 Kg di massa organica” capaci, però, di “concepire l’infinito e l’assoluto”.

Sei in questa brezza, nella canicola di ieri. Nei pensieri che penso. Nelle parole che parlo, che scrivo, che uso. E che non mi sembrano mai – come mi accade – inadeguate, lontane, ambigue. Non le tue, che sapevi usarle per curare, sì, ma anche per illuminare, donare, abbracciare. E dissezionare, anche. Con la punteggiatura che le vestiva come tu sapevi vestire di passione e di gioco le tue cose.

Alla Domus Aurea appoggiasti la mano sul muro di pietra, e lo sfiorasti con la fronte, e con la mente. Sei anche lì, sei ancora lì, ne sono certo. A sentire, come sentivi da “ateo impenitente”, il correre delle ere, dei secoli, delle persone che lo hanno attraversato. Dentro di te c’erano Ulisse, Gengis Kan, Federico II, Leopardi, Gramsci e Berlinguer. E tutti i miserabili della storia che onoravi continuamente. Tutti distinguibili, tutti tuoi, nella tua capacità incredibile di saperli far vivere. Come hai saputo far vivere la tua vita, raccontandola in quell’equilibrio perfetto fra cabaret e dolore. Intenso. Profondo. Distruttivo.

Sei nei tuoi racconti, nelle cose che lasci, nelle tantissime cose che hai scritto, nel tuo spiegare mai supponente. Nell’odore inconfondibile di casa tua: tabacco, legno, polvere, muffa, acrilici, libri. Nella collezione dei tuoi asinelli, nelle tue pipe, e negli scacchi. Nelle sigarette dappertutto. Nei mitili mangiati con coltello e forchetta. Nella tua paciosa galanteria. Nell’essere un “freudiano ortodosso” come ti piaceva definirti nel tuo lavoro (che rigorosamente facevi, non che eri). Nel rigore estremo, fino a farsi aspro, del pensiero, con cui sempre ti misuravi.

Sei nella materia che amavi, dove sapevi cogliere la storia, la vibrazione, la vita, la coscienza delle pietre. Nel tuo sentirti solo, come in una navicella alla deriva, eppure parte del tutto. Nei tuoi scazzi. Nei tuoi capricci. Nel tuo essere acuto, pungente e brusco. Sei ne La Stazione di Zima, lì eri e per sempre: nelle canzoni di Vecchioni, di Guccini, di Mercedes Sosa.

E sei qui. Mentre sto scrivendo. Mentre penso che sì, nella tua vita hai fatto più di abbastanza e la morte, certo, non ti ha trovato inerte.

Ci sei, Vinc, anche nel nostro perderci. In questo dolore che mi ha trovato crudo e solo. In questa distanza che non ho mai messo, perché non posso mettere distanza fra me e quello che sono. E quindi sto al gioco di questo dolore che mi abita e preme, come segno delle parole che hai piantato dentro. Le guarderò crescere con curiosità: anche questa curiosità – della vita e dell’umano – se guardo bene, è cosa tua.

Il Pugilatore delle terme, Simone Biles e le proprie maschere.

Simone Biles e il Pugilatore delle Terme.
Simone Biles e il Pugilatore delle Terme: da secoli uscire dal proprio ruolo crea conflitti.

Il grido brutale gli penetrò – spietato – negli orecchi. Si portò le mani alla testa, comprimendo i padiglioni. Poi si guardò le dita: bardate delle ampie cinghie – erano tumefatte, e i polpastrelli insanguinati.

La lotta era stata durissima. Nell’agon le poche regole erano crudeli e definitive: il cuoio intono alle nocche dell’avversario diventava una lama che strappava le carni.

Il ruggito successivo, di nuovo incomprensibile e animalesco, gli trapassò il cranio. Strinse le palpebre, quindi si voltò di lato in un movimento lentissimo e penoso. Il dolore lo trafisse da dietro i globi oculari.

“Perché hai alzato quel maledetto indice? Stavi vincendo!”.

Non disse una parola. Fece fatica a capire chi fosse l’uomo. Lo guatò con gli occhi ancora appannati di sudore, gli zigomi tumefatti dai colpi. Poi riconobbe la barba di Tullius, il suo allenatore. Anche la voce era trasfigurata dalla rabbia.

“Perché ti sei arreso?” strillò ancora mostrandogli il pugno e il ghigno feroce.

Brimias raccolte le poche energie che ancora lo sostenevano. I muscoli della schiena sembrarono gonfiarsi ancora, e lui ingobbire sotto al suo stesso peso. Senza alzare lo sguardo, disse: “Sono esausto di essere il pugile spietato che tutti vogliono. Basta”.

Mosse appena le labbra. Il sudore gli percorreva la schiena, e un liquido rossiccio, di sangue e sudore, gli colò sui guantoni. Morse l’aria: “La sconfitta. Sono un perdente, da ora. Va bene così”.

Tullius ammutolì. Un lampo di furore gli attraverso ancora gli occhi; se ne andò schernendolo. Mentre una curva sgemba -qualcosa di simile ad un sorriso- comparì sulle labbra sudice di Brimias.

***

E’ da un po’, dopo aver visto il Pugilatore delle terme nella sua casa di Roma, che sento il desiderio di scriverci qualcosa. Lì, ad osservare la statua da qualche metro, la potenza di quello che ha da dire, non si esaurisce e si amplifica: il dolore modellato su quel bronzo, attraversa i secoli, ha da narrare ancora qualcosa.

Gli eventi di questi giorni che hanno coinvolto Simone Biles me lo hanno ricordato.

Brimias come Biles. Il primo comunicato stampa della federazione di ginnastica USA, che minimizzava i fatti di Simone, come il gymnastes di Brimias: succede ogni volta che dismettiamo la maschera che indossiamo, per preferirne un’altra. Creiamo fratture, scompiglio, turbamento quando divergiamo dal personaggio che gli altri si aspettano.

Quando dismettiamo un ruolo, e cerchiamo di assumerne un altro, o nessuno: la relazione viene modificata, se la rapportiamo e la commisuriamo continuamente a ciò che desideriamo. In ogni tempo.

Biles e il Pugilatore – adesso lo so – questo mi dicono: che si può deludere, anche chi amiamo, se ci è diventato insostenibile assumere la parte che hanno pensano per noi. Che ci si può perdere, arrendersi, cambiare se lottare non è ciò che desideriamo. Se il tempo intorno al quale immaginiamo di dover essere è qualcosa di diverso dall’immagine pubblica che mostriamo; se sentiamo di essere incastrati – se non reclusi – dentro un ruolo che ci stringe, invece di essere noi a definirlo.

Lo si può fare continuamente.

Lo si deve fare continuamente.

Lo si può provare continuamente se questo nutre la polisemia che ci portiamo dentro.

L’ultimo messaggio di Simone Biles è illuminante: “L’amore e il sostegno che ho ricevuto mi hanno fatto capire che sono più dei miei successi e della mia ginnastica a cui non avevo mai creduto prima”.

Voglio immaginare che alcuni degli sguardi che l’hanno resa campionessa, permettendole di immaginarsi tale, sono gli stessi che ora l’hanno vista bisognosa di cure; e a lei di guardarsi: sguardi preziosi che tolgono maschere e ne creano continuamente, permettendoci di trovare la nostra misura e il nostro percorso.