Categoria: Letteratura

The Infinite

Lo scorso anno Patti Smith, nel suo concerto a Roma, ha declamato L’Infinito di Leopardi, a significare il rapporto stretto e profondo con la regione Marche.

Ci sono tantissime traduzioni in inglese di questa meravigliosa poesia. Patti Smith ha usato quela di Roland Rogers. Eccola:

This hermit hill was always dear to me,
with its hedgerow hiding
the last horizon in so many places.
But as I sit and gaze and conjure
unending spaces,
unearthly silences,
and utter sillness,
my heart almost stops in fear.
When… storming through the leaves
the wind brings me a voice to set against
the infinite silence; and eternity
and seasons past, are summoned
to breathe in this moment and sound.
And my thoughts drown in this vastness,
where to founder is sweet and gentle in this sea.

Gaia Tortora, in cerca di giustizia giusta.

Gaia Tortora, Testa alta e avanti
Gaia Tortora, Testa alta e avanti

«Credo nel potere delle storie di cambiare il mondo, e spero che, almeno un po’, possa avercelo anche la mia».

Amo la Giustizia quanto ho avversione per i sui (necessari) riti e le sue regole. Mi rendo conto di non saper calare cerimonie e norme nei fatti e nelle storie che leggo; a volte ogni passaggio nella forma della legislazione mi sembra assurdo e lontano.

Per questo il tempo dedicato a leggere il libro di Gaia Tortora “Testa alta e avanti. In cerca di giustizia, storia della mia famiglia” mi ha riconciliato con un tipo di lettura che non facevo da tempo. Quello della Giustizia che si mischia con le storie e le vicende delle persone: in questo libro, specificatamente, con la storia della famiglia Tortora, violentata da una malagiustizia decisamente più criminale che negligente.

L’autrice parla del suo mondo di bambina messo a soqquadro da un evento inspiegabilmente doloroso e kafkiano che si schianta sulla sua vita di quattordicenne cambiandola per sempre.
Lei ne ricostruisce i passaggi, la storia, i volti, le mani di chi l’ha tenuta (Piero Angela -sì-; la zia materna), gli occhi di chi l’ha guardata (Carlo Romeo da Teleroma 56), la forza (da “soldato”, da “guerriera” come si definisce), il carcere terribile e la corrispondenza dolcissima, “il sorriso usato come scudo”, la sua amica Stefania e la “sorellona” Silvia. Il giornalismo; il dolore vissuto in apnea. Infine, ad anni di distanza, il crollo e la rinascita (“mi sono sentita nascere per la prima volta”).

Sono traiettorie che Gaia Tortora ha dovuto seguire, a volte senza coscienza, a volte solo perché era ineluttabile farlo; altre le ha seguite per scelta, per desiderio oltre il dolore e la tragedia, oltre quel velo di perdita di cui sono coperte tutte le sue cose.

Parla del suo dramma, del silenzio in cui si è calata (“facevo la mia parte così, arrangiandomi”), del lento cammino (costantemente in evoluzione) verso se stessa, degli inciampi e dei piccoli successi. Parla di Giustizia (“voglio che questa battaglia faccia parte di me”) in modo elaborato; è chiaro che quello che scrive è frutto di una coscienza profonda, misurata, un abito indossato con eleganza e decisione, con prudenza e sobrietà. Descrive il tracollo della giustizia italiana (“Siamo diventati la bara del diritto”) in modo minuzioso, dettagliato ma mai definitivo. Snocciola numeri, vicende, storie per raccontare – tenendosi lontano, come dice, dalla tifoserie e dalle strumentalizzazioni – le vicende nelle aule giudiziarie, nelle carceri (“quel ‘clang’ delle porte scorrevoli […] chi non è abituato non se lo aspetta, fa trasalire”), i rapporti politica-magistratura, il pentitismo, la magistratura-spettacolo e le troppe volte in prima serata.

Ne ha per tutti. Con decisione, con coraggio, ma in modo garbato, quasi con tenerezza. Alla tenerezza cede solo una volta, ricordando il perdono chiesto da Melluso: “Sono pronto ad inginocchiarmi davanti alla sua famiglia”. “Stia pure in piedi” rispose con orgoglio.

Da persona informata, ne ha anche per la categoria a cui appartiene, quella del giornalismo, a cui imputa gran parte del dolore causato da sentenze spettacolarizzate (“un giornalismo aggressivo che punta a vendere tre copie in più” e che invece dovrebbe limitarsi “a dare le notizie, non interpretarle”). Lo fa non solo enunciando principi ma accettando di essere la rompiscatole di redazione attenta ai dettagli, ai nomi, agli aggetti, ai virgolettati: e quindi attenta a non calpestare -oltre- la vita delle persone.

Vi piacerà. E’ un libro che può essere letto da tante angolazioni. Dovrebbero leggerlo chi ha fatto della Giustizia il proprio lavoro; i giornalisti che vi troveranno una nuova traccia imperfetta riguardo il proprio mestiere; i cittadini che vogliono conoscere il marchingegno (a volte infernale) della giustizia italiana; o semplicemente i lettori a cui piace leggere storie di rinascita. Se a questa si giunge mai.

PS. Portobello -nonostante i silenzi in trasmissione- parlava. Con Gaia e Silvia: le bambine gli avevano insegnato tante parolacce.

Il Diario di Pietra. Come le parole lacerano.

Alessandra Cotoloni, Il diario di Pietra
Alessandra Cotoloni, Il diario di Pietra

«[…] grafico metrico mobile della mortalità ospedaliera 10% per radiazioni magnetiche teletrasmesse 40% per malattie varie trasmesse o provocate 50% per odi e rancori personali provocati o trasmessi […]»

E’ un libro sulla durezza – e sulla rudezza – della parola.

Sull’intagliarla, scolpirla nella pietra. Sulla parola (silenziosa e negata) come oggetto di dolore; come mezzo di difesa, come arma acuminata; sulla responsabilità di pronunciarla, sull’essere perennemente tradita, incompresa, asservita.

E’ un libro sulla necessità di dire e “fare” parola; su ogni mezzo, con ogni mezzo. Fernando sul cemento di una parete ed un corrimano, con la punta di un ardiglione. Sul “fare” ad ogni costo: quando si è visti, quando si è letti, e quando no. Fino al tormento e allo strazio delle mani, che si fanno sempre più piccole e più tozze.

E’ un libro sull’amore di saper guardare; di saper decrittare: «Non sa la pazienza che mi ci è voluta per cercare di decifrarle; scriveva e faceva quei suoi disegni geometrici con indicazioni di date, elenchi di minerali e colori, parlava di luoghi, stati, città, elencava date di nascita di parenti immaginari, costruiva quelle sue strane genealogie mettendoci dentro di tutto, regine, papi, gente che aveva sentito nominare alla radio». Un libro sull’inventiva creatrice e dolorosa, su come la nostra mente sappia trovare una strada anche nel buio e nella sofferenza.

Benché molti passi siano romanzati, la storia – incredibile ed inquietante – di Nof4 è assolutamente da leggere. Per lunghi tratti la trovate ancora lì, dove è stata scolpita: sulle pareti del manicomio di Volterra, di cui è stato involontario “ospite” per 40 anni.

Diario di una ragazza albanese.

Lireta non cede, di Lireta Katiaj
Lireta non cede, di Lireta Katiaj

“Ringrazia le tue cicatrici che ti stanno salvando la vita”

L’ultimo regalo che ho ricevuto dal Piccolo museo del diario è la conoscenza di questa storia: Lireta, ha la mia età, è – come nell’intuizione di Mario Perrotta – una nuova Medea che sfida gli eventi, del mare e dell’Albania degli anni ’80, e il fato per migliorare la sua vita e quella di sua figlia.

E’ una Medea “donna qualunque”, e anche “straniera”, e che decide di farsi “pubblica”, con il suo portato di incredibile dolore e di tantissima speranza. Nel suo diario, che si dipana fra l’Albania, il mare e l’Italia, la incontriamo giovanissima, figlia di una madre non abbastanza protettiva di un padre violento. Egli ha organizzato per lei un matrimonio che Lireta rifiuterà tenacemente con tutte le sue forze: questo la porterà a vivere esperienze di dolore, angoscia, solitudine; ma anche di maternità, salvezza, amicizia, amore.

Al solito, il contatto con un diario è qualcosa di prezioso. E’ la prossimità con la pelle, con il fiato di chi l’ha scritto, di chi ha infilato parole come una collana di perle per rendere disponibile il proprio vissuto. Per essere testimonianza, in primis a se stessi.
Nell’editarlo, non si sono fatte correzioni che stravolgessero il testo: l’italiano con cui è scritto è quella di una ragazza immigrata che ha imparato la lingua prima alla Tv, poi nell’esercizio giornaliero delle relazioni. E’ qualcosa di autentico, come la sua storia – che crepita del realismo di giorni terribili e di giorni dolcissimi – che evoca le emigrazioni dei giorni nostri. Varrebbe la pena leggerlo, anche solo per capirne – con le dovute differenze – qualcosa di più.

“[…] Quando ti trovi in mezzo al mare di notte, con i tuoi figli a bordo di un gommone, cambi idea immediatamente di quello che hai appena fatto. Ti senti in colpa e non puoi fare niente. Speri solo di arrivare a toccare terra e basta. Non smetti mai di pregare e guardare le stelle, non smetti mai di fissare il volto della tua bimba per capire se respira, la devi tenere stretta a te per sentire il suo cuoricino che batte. Mi sono odiata così tanto quella notte che mi facevo schifo […]”.

Noi siamo ciò su cui manteniamo il silenzio.

Silenzio.

Nel corso della sua vita l’uomo non solo agisce, sogna, parla e pensa, ma tace anche qualcosa – per tutta la vita tacciamo su quel qualcuno che siamo, di cui solo noi sappiamo e di cui non possiamo parlare a nessuno. Ma noi sappiamo che quell’uomo e quel qualcosa di cui tacciamo sono «la verità», siamo noi quelli di cui tacciamo.

Sándor Márai – Terra, terra!

L’aforisma spiegato da Nicola Vitiello a Radio Deejay

Sacro è ogni cosa che vive

libro-furore-steinbeck

Diceva che una volta era partito nel deserto, era andato per cercarvi la sua anima, e aveva scoperto che non aveva anima che fosse sua, ma che era solo un pezzo di un’altra anima immensa. [il nostro pezzo d’anima] non può servire da sola, serve solo quando sta con altri pezzi.

Bruce è in tour. Vi porta The ghost of Tom Joad e io rileggo Furore.
Ci sono diversi modi per leggere questo testo. Succede a tutti i testi di un certo spessore, che parlano del fatto (in questo caso della tragedia della famiglia Joad) e arrivano ai fatti. Dal particolare all’universale. Così accade nelle canzoni di Bruce. Così accade qui (come Steinbeck ci ha abituato).
Allora leggiamo della vecchia Hudson, e vediamo le carrette del mare di oggi; leggiamo di miseria, di fame, e vediamo gli occhi degli affamati di oggi, di colore, africani e non; sentiamo il riverbero della forza della dignità di Tom, e ci arriva quella dei migranti – disperata ma non vinta. Possiamo utilizzare la lente di Furore per capire – se proprio non si vuol comprendere – quello che sta succedendo ora, in questi anni di migrazioni epiche. Di migrazioni strutturali: di uomini che semplicemente cercano la felicità per sé. E per chi amano.

Come fai a spaventare un uomo quando quella che lo tormenta non è fame nella sua pancia ma fame nella pancia dei suoi figli? Non puoi spaventarlo: conosce una paura peggiore di tutte le altre.

Steinbeck scrive della depressione americana, ma la storia spezza lo spazio e il tempo e arriva fino a noi. O, con le parole di Tom/Bruce:

Mom, wherever there’s a cop beatin’ a guy
Wherever a hungry newborn baby cries
Where there’s a fight ‘gainst the blood and hatred in the air
Look for me Mom I’ll be there

Sono d’accordo con chi dice che sia un testo dal valore incalcolabile. Di valore civile. Non solo: di forza civile. Civile inteso come comunità. Come comunità di uomini. e quando mamma Joad (che personaggio… stupendo! Più degli altri a mio avviso) si appella agli altri componenti della sua famiglia, si intestardisce fino ad arrivare dove nemmeno lei si sarebbe aspettato, ci sembra che quei moniti verso la non-disgregazione della famiglia; di non dispersione degli affetti sia una preghiera all’umanità intera.
All’anima che citavo all’inizio, per l’appunto.

Non è un testo religioso. c’è un predicatore che non è più tale, ma il libro esprime una religiosità profonda, addirittura radicata nel valore delle persone, della forza della dignità umana. La religiosità si fa palpabile, attraversa ogni persona, ogni animale (ottimo come Steinbeck infili nella narrazione animali che non sembrano poi molto diversi dagli umani…), ogni vivente: e infatti vi giunge: sacro è ogni cosa che vive. Che evoca il servo di Licini: “Un miracolo. Dimmi una cosa che non sia un miracolo”.

Il finale. Ho letto altre recensione che parlano di totale abbandono alla miseria, di degrado ultimo. A me sembra di no. O almeno – e anche in riferimento a quanto ho scritto – sembra che Steinbeck peschi il segno perfetto, adiacente direi (il seno e l’allattamento; l’essere madre e nutrire; l’essere in difficoltà e nutrirsi) a ciò che avrebbe voluto – io credo – esprimere: non c’è mai un fondo. E ogni scalino verso il fondo prevede – almeno – una stilla di speranza. A cui aggrapparsi. Insieme.
Ah, poi e’ scritto benissimo. Ma questo – in tutto il resto – sembra solo uno stupido dettaglio…

La morte di Stella Raphael

Follia di Patrick McGrath

Follia di Patrick McGrath

Follia è un romanzo di Patrick McGrath. Ben scritto; con i passaggi giusti per tenerti lì. Non mi aspettavo la morte di Stella (protagonista insieme ad altri). L’ho rielaborata – come un lutto privato… – come segue.


Mi trovarono riversa nel letto, con indosso ancora il mio abito nuziale. Le coperte ancora calde, quel velo di cipria, il sorriso ebete. E la mancanza di lui fra le dita. Era poco oltre mezzanotte, quando Peter spalancò la porta, il respiro corto preso nella morsa del panico. Misurò i passi, calmò come poté l’affanno, e si avvicinò al letto. Vidi la disperazione nei suoi occhi, un tremolio del labbro; un dolore quieto e sincero. Fece per abbracciarmi; mi portò al petto; la mia mano scivolò inanimata sul suo grembo. Il cerchio della luna -le striature di una perla- illuminò il mio collo bianchissimo; le labbra, esangui, appena distese in un sorriso. Devo essergli sembrata bella, trasfigurata nella quiete della morte; nella rinuncia agli inganni e alle costrizioni che mi ero inflitta: un ordito solido e perfetto, un bozzolo inespugnabile. La finzione era nella curva dura del mento, nel lampo vigile dei miei occhi, nei passi misurati. Nelle mie notti inquiete. Era parte di me, ormai; senza che nessuno se ne fosse mai accorto. Mai concessa un sussurro, né un gesto di troppo; ogni parola ponderata, ogni sguardo discreto e contenuto. Ho voluto la morte, per rendermi libera. Dalla fantasia di lui, dalla sua mancanza. Ma sopratutto da questa finzione continua, asfissiante. Imposta a me stessa o impostami dal mondo; rigida e certa. E’ stata la vibrazione di un diapason: mentre mi perdevo nell’ultimo sonno sentivo incrinarsi quest’involucro bianco, con un intreccio che si allargava dal centro del ventre; le membra distendersi, un benessere caldo. E’ sopraggiunta regalandomi questo sorriso, che Peter mi restituisce in una carezza. Sincero, come non lo assaporavo da tempo.

Il cuore in mano

Il cuore in mano

Osvaldo Licini scrive i Racconti di Bruto fra il 1912 e il 1913, nel corso della sua permanenza Parigina, dove era venuto a conoscenza della poetica di Rimbaud e Baudelaire.
I racconti sono caratterizzati dalla visione romantica della natura e da un tono dissacrante con cui attacca, celato dietro il suo alter ego di Bruto, le convenzioni sociali (una specie di De Andrè ante litteram) della società perbenista dell’epoca.

Il cuore è in mano è un racconto affascinante. E’ la narrazione di un cuore-amore in piena palpitazione che non trova un obiettivo-persona per esistere. Per farsi vero e concreto, per rendersi reale. Nessuno lo vuole, anzi è spesso oggetto di scherno, questo cuore che sanguina e che pulsa strappato dal petto di Bruto. E’ il rifiuto, il distacco, lo stigma sociale del diverso. Di chi ama in modo diverso. Ma non meno vibrante e sincero.

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Bruto s’era disteso, ma s’annoiava un poco. Allora, con una mano, si prese il cuore dal petto, lo posò sul cuscino e lo guardò palpitare. Poi mise il suo cuore nel cavo della mano e cominciò ad ammirare l’opera di Dio. E si compiacque a vedere il buco dove passa e ripassa l’anima e le piccole vene azzurrine dove si annidano i sentimenti. Poi lo strinse forte con la mano e cadde l’ultima stilla.
Si alzò e mise il cuore sulla finestra per farlo asciugare. D’un tratto, Bruto fu colto da un bisogno irresistibile di tenerezza e provò l’impulso irresistibile di donare il suo cuore magari al primo uomo che incontrasse sulla strada.
E sortì col cuore in mano.
Allora Bruto cercò fra la folla l’uomo eletto. Cento volte tese la mano per donare il suo cuore, cento volte gli uomini si ritrassero con diffidenza.

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