Etichettato: poesia

The Infinite

Lo scorso anno Patti Smith, nel suo concerto a Roma, ha declamato L’Infinito di Leopardi, a significare il rapporto stretto e profondo con la regione Marche.

Ci sono tantissime traduzioni in inglese di questa meravigliosa poesia. Patti Smith ha usato quela di Roland Rogers. Eccola:

This hermit hill was always dear to me,
with its hedgerow hiding
the last horizon in so many places.
But as I sit and gaze and conjure
unending spaces,
unearthly silences,
and utter sillness,
my heart almost stops in fear.
When… storming through the leaves
the wind brings me a voice to set against
the infinite silence; and eternity
and seasons past, are summoned
to breathe in this moment and sound.
And my thoughts drown in this vastness,
where to founder is sweet and gentle in this sea.

Springsteen, qualcosa di intimo come la morte.

L’emozione, giovedì a Ferrara, è arrivata quando l’hostess mi ha stretto al polso il braccialetto del pit. Era qualcosa a cui non avevo pensato, e quella fascia mi ha svegliato dal torpore: sei ad un concerto di Bruce, puoi pensare solo a divertirti.
Attendevo gli uomini-ragno inerpicarsi lassù al margine del palco. E invece no: la band è entrata qualche minuto dopo le 19:30 rompendo una routine che pensavo fosse confermata. Non sarà la prima rottura.

Per la prima volta ho avuto l’impressione che Bruce abbia “tenuto per sé” qualcosa, della consueta – ed anche giovedì confermata – generosità sul palco. Abbia deciso per una lunga monografia intorno a se stesso, abbia deciso di farsi ascoltare ma di più abbia voluto farsi comprendere. Bene, molto bene. Sono una novità i testi e lo speech tradotti: con cui racconta il suo rapporto con la giovinezza, con gli anni di una carriera lunghissima. Con la morte. Forse è la prima volta che Bruce canta una biografia così potente, con sè stesso così al centro: senza personaggi a cui appoggiarsi, senza le scene cinematografiche che conosciamo, senza proiezioni: parla di sé in prima persona, di come è diventato l’uomo e l’artista che è; parla di come si sta relazionando alla (sua) morte, perfettamente descritta con l’immagine potente del treno e della luce.

Certo. Ha confezionato uno show diverso da quello a cui eravamo abituati (il juke box, la festa continua, il suo concedersi incessantemente ai fan), ma io penso che Bruce abbia messo in conto di regalarci questa “mancanza”. Perché sente di avere sempre meno tempo, e sente di voler essere compreso, in modo non banale. Questa sua umanissima fragilità a me stupisce e commuove. Ieri pensavo a “Guarda che non sono io” di De Gregori. Mi sembra che Bruce, fra le note (fra “Last man standing”, e la chitarra issata su Backstreets), senza rimpiangere nulla, volesse dire: “Sì, so farti divertire e commuovere. Ma ecco un pezzo di me, tienilo e ascoltalo. Abbine cura”. Abbine cura, addirittura.

Non credo sia un addio. Ha ricordato sempre che continuerà a fare live (con spettacoli organizzati in modo diverso, magari) e ad avere una relazione privilegiata con i suoi fan. Ma in questo periodo vuole che la comunicazione sia di un certo tipo: più riflessiva, più intimistica. Vuole che le sue parole arrivino per restare. E’ cambiato, sì, forse. E questo adattamento gli è conforme e necessario. Io l’ho trovato un regalo bello e grande.

Non parlerò di musica. Non occorre. Non è una questione di bravura, di qualità, di band che sembra un organismo perfetto. Nè della sua voce, o di tutti quelli – al primo concerto – che mi raccontano la propria meraviglia. Non è importante. E’ importante quello che ha creato (con la gioia, la malinconia, l’energia solo sua) nel corso degli anni. E’ importante quel feelling. Il suo desiderio di dircelo.

Per ultimo, solo una cosa sulla polemica intorno l’alluvione. Si, non ha detto niente. Ma io preferisco giudicarlo non per qualcosa in cui (forse) è mancato ma per tutte le volte che, invece, ha espresso la sua solidarietà, con le parole e il suo patrimonio. Non sapremo mai se è stato un “errore” o una scelta volontaria. Io avrei preferito altro, ma non cambia nulla nella sua storia. E nella stima che ho di lui.

Tempo e tempi. Incomunicabili.

Eugenio Montale. Tempo e tempi
Eugenio Montale

I contatti della mia bolla di Facebook hanno pubblicato molte poesie di Montale, oggi.
Alcune non le conoscevo. E quelle che ho riletto hanno suscitato in me – come sempre – un grande senso di meraviglia e di smarrimento.

Pubblico anche io la “mia”. Forse un po’ meno conosciuta. Ma credo la migliore per esprimere lo smarrimento che sento in questi tempi.

Il senso di incomunicabilità. L’angoscia della lontananza dei corpi ma – di più – delle menti. Quella intrinseca all’umano; che abbiamo in tasca ogni giorno.
Quel pertugio che le parole devono varcare per farsi vedere e farsi comprendere, zigzagando fra “congegni e scambi” perfetti e implacabili, ma insufficienti. In quel passaggio strettissimo, intricato, a volte tagliente, dove si devono infilare per recuperare brandelli di senso. Quella scintilla che si accende, che vibra in quell’attimo – e in quello soltanto – che non si può dire se non intuendolo e dove si è capaci, solo lì, di “intenerire le stelle”.

Io la trovo – da sempre – perfetta.

Il titolo è Tempo e tempi

Non c’è un unico tempo: ci sono
molti nastri che, paralleli, slittano
spesso in senso contrario e raramente
s’intersecano. È quando si palesa
la sola verità che – disvelata –
viene subito espunta da chi sorveglia
i congegni e gli scambi. E si ripiomba
poi nell’unico tempo. Ma in quell’attimo
solo i pochi viventi si sono riconosciuti
per dirsi addio, non arrivederci.

— E. Montale

Il desiderio dell’orca

Illustrazione di L.T.G - Artes (aka Ana Novaes) - L'orca
L’illustrazione è di L.T.G – Artes (aka Ana Novaes)

Vorrei chiederti mille e mille e mille volte ancora,
e mille volte ogni giorno, e mille volte ogni ora: “Come stai?”
Come sai fare tu.
Come non so fare io.
Che mi perdo nel suono della parole. E nel ritmo. Nel fumo e nel fuoco.
E a volte nel senso.

“Come stai?”
E sentirti dire che stai bene.
Che lotti, che sbracci, che arranchi.
Che tessi questa fibra asciutta che è la tua vita.
Che è questa rosa.
Che è la tua orca.
Immersa nella disperazione dell’acqua,
e il desiderio degli occhi puntati verso il cielo.

L’Infinito. Tonda, incalzante, intima bellezza.

L’Infinito. Per le vie di Recanati.

Io lo ricordo perfettamente.
Ricordo perfettamente che inforcò i mezzi occhiali -verdi- che teneva sempre in borsa; che li fece scivolare un po’ verso la punta del naso; e quindi passare il cordino dietro la nuca, in quel suo gesto un po’ impacciato.

Poi prese il libro -la mia maestra; frequentavo la seconda, al massimo la terza elementare-; lo piegò un po’ -con religiosità- facendo scorrere con energia il palmo fra le pagine; e -come sempre per tenerlo aperto- nella piega infilò il dito indice.

Poi lesse. Lesse l’Infinito.
Solo su “colle” ci scrutò da sopra gli occhiali, e perse un po’ di attenzione; poi la lettura si fece quel lungo, caldo, febbrile, nascosto incedere che è.
E lesse “quiete” dilatando il suono della i; scese di tono su “fingo”; e vibrò la voce su “stormir”; quindi allungò i suoni di “comparando”, quasi a sillabarla, con lentezza incalzante; squillò la voce, gradualmente, dall'”eterno” fino al “suon di lei”. 
E infine il meritato riposo: la pausa del mare. L’infinito-mare.
Mentre accompagnava le sue parole faceva movimenti dolcissimi del polso, come un consumato direttore d’orchestra.

Rimasi sbalordito. Non avevo capito niente. Ma avevo compreso benissimo.
La mia maestra è morta solo qualche anno fa. Le devo un sacco di cose: anche l’amore per la poesia; il gusto della parola tonda, perfetta. E l’amore per la bellezza.

Tutta ‘a vita annanz’

Che bella.
Ascoltatela.
La musica quando la si fa: con dentro tutte le voci, le intimità, le emozioni, le malinconie, le imperfezioni di Napoli.
No, non riesco a capire tutte le parole. 
Ma comprendo la tenerezza, la dolcezza, la passione. La forza.
E mi sembra un capolavoro.
Grazie a Gnut e Alessio Sollo.

L’intervista agli autori sul loro nuovo album è a questo indirizzo.

La tradizione, più o meno, dovrebbe essere:

Nun vulenne me so’ annammurato ‘e te
  Senza volerlo mi sono innamorato di te

m’hanno fatt ‘e buchi ‘mpietto l’uocchie tuoje
  Mi hanno fatto dei buchi nel petto gli occhi tuoi

‘a cervella murmuliava ‘e ‘nce cade’
  il cervello mormorava: “non caderci”

comm a sempe o’ core ha fatt a capa soja
  ma come sempre il cuore ha fatto di testa sua

antrasatte m’agge fatt arrevuta’
  all’improvviso mi sono fatto coinvolgere

si’ trasuta nt’ ‘e penzieri mi chiu’ bell
  sei entrata nei miei pensieri più belli

quanne po’ scurnosa he ritt ‘a verità
  quando, timida, mi hai detto la verità

‘nzieme o’ sole ‘ncielo so turnate ‘e stelle
  insieme al sole, in cielo, sono tornate le stelle

primm ca’ facesse ‘a parte ‘e l’omm o’ core
  prima che il cuore facesse la parte dell’uomo

curaggiosa tu nun he perduto tiempo
  tu coraggiosa non hai perso tempo

l’he pigliato doce ‘e pietto chillu sciore
  lo hai preso dolcemente nel petto quel fiore

je guardava a te e respiravo a stiento
  io guardavo te e respiravo a stento

è bastato nu surriso e doje parole
  è bastato un sorriso e due parole

pe’ me fa senti’ ‘e farfalle dint’a panza
  per farmi sentire le farfalle dentro la pancia

m’he paruto comm o’ primm juorne ‘e scola
  mi è sembrato come il primo giorno di scuola

quanne tieni ancora tutt ‘a vita annanz.
  quando hai tutta la vita dinanzi.

Quel posto morbido e perfetto

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Quel posto
morbido
il tuo tenero interno coscia
simile alla guancia di un fiore
e poi
il tuo sapore pungente
che si espande sulla tua lingua

quella nostra prima volta, grandiosa

come la dolcezza del dormire ad occhi aperti
o
come quando – a cinque anni – ho scoperto
l’incredibile magia dell’organo a vapore
al sicuro tra le braccia robuste di mio padre
sulla giostra del molo di Santa Monica
che girava e girava senza più fermarsi

da allora nulla
tranne te
e quella sensazione
è mai stato più perfetto

— Dan Fante

Un giorno esisterà.

Un giorno esisterà - Rilke

Un giorno esisterà la fanciulla e la donna,
il cui nome non significherà più soltanto
un contrapposto al maschile, ma qualcosa per sè,
qualcosa per cui non si penserà a completamento
e confine, ma solo a vita reale:
l’umanità femminile.
Questo progresso trasformerà l’esperienza dell’amore,
che ora è piena d’errore, la muterà a fondo,
la riplasmerà in una relazione
da essere umano a essere umano,
non più da maschio a femmina.
E questo più umano amore somiglierà a quello
che noi faticosamente prepariamo,
all’amore che in questo consiste:
che due solitudini si custodiscano, delimitino
e salutino a vicenda.

Rainer Maria Rilke – Lettere a un giovane poeta, 1905.

I vostri nomi

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Ieri sono stato a trovarti, papà,
la luce in questi giorni non è tagliata dall’ombra
negli alberi senza vento c’è l’odore secco dell’aria
per come posso, ti ho portato il racconto dei temporali,
l’odore di inverno sulle tempie
a Chiusaforte è nevicato, nevica sempre
e le fontane sono ghiacciate
penso, per qualche momento, che tu sia ancora lassù
ad accatastare legna con cura
e non in luoghi come questi
la casa di riposo con la pista per le bocce
dove state raccolti come le foglie nel parco
uniti nell’attesa, lontani dalle città assediate.
Dicevate domani, dicevate questo è il figlio
e con il silenzio del fischio nella bufera
i vostri nomi sono andati via
voi che siete stati popolo e ombra
remissione e forza
il tuo nome, papà, e quello di Bruno, che non era un’antilope
e tirava sassate al pettirosso sul ramo più alto
o quello di Giordano, o quello di Cesare, o quello di Alfredo, l’artigliere
o quello di quelli che, come te, sono stati bambini
che hanno detto domani.
E adesso non è troppo dire
quanto poche sono le foglie cadute
sui giorni di novembre
per dire cos’è l’inverno negli occhi mentre viene
tutto il poco possibile è qui,
nei vostri corpi piegati come l’ulivo
sulle vostre facce di monete graffiate
in questo spazio, in questo tempo confusi
come il cielo e la terra quando nevica,
e se c’è un’uscita, papà, anche se non posso dire domani,
la sua luce sulla soglia
è questo stare dei tuoi occhi dentro i miei
questo pensarvi vivi, liberi e scalzi
le tasche piene di sassi, la memoria di voi
che trema in noi
come una stella incoronata di buio.

— Pierluigi Cappello

Io mi porto questo verde alle labbra

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Io mi porto questo verde alle labbra
questo vischioso giurare di foglie –
questa terra che è spergiura: madre
di bucaneve, aceri, quercioli.

Mi piego alle umili radici, e guarda
come divento insieme cieco e forte;
non fa dono, il risonante parco
di una sontuosità eccessiva agli occhi?

E – palline di mercurio – le rane
con le voci s’agglomerano a palla;
i nudi stecchi si mutano in rami
e in lattea finzione il vapore dell’aria.

— 30 aprile 1937, Osip Mandel’stam

Ritratto di donna

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Deve essere a scelta.
Cambiare, purché niente cambi.
E’ facile, impossibile, difficile, ne vale la pena.
Ha gli occhi se occorre, ora azzurri, ora grigi,
neri, allegri, senza motivo pieni di lacrime.
Dorme con lui come la prima venuta, l’unica al mondo.
Gli darà quattro figli, nessuno, uno.
Ingenua, ma è un’ottima consigliera.
Debole, ma ce la farà.
Non ha la testa sulle spalle, però l’avrà.
Legge Jaspers e le riviste femminili.
Non sa a cosa serve questa vite, e costruirà un ponte.
Giovane, come al solito giovane, sempre ancora giovane.
Tiene nelle mani un passero con l’ala spezzata,
soldi suoi per un viaggio lungo e lontano,
una mezzaluna, un impacco e un bicchierino di vodka.
Dove è che corre, non sarà stanca?
Ma no, solo un poco, molto, non importa.
O lo ama, o si è intestardita.
Nel bene, nel male, e per l’amore del cielo.

— W. Szymborska

Cos’era

pomeriggio-tramonto

I
Era impossibile da immaginare, impossibile
da non immaginare; il suo azzurro, l’ombra che proiettava,
che cadeva a riempire l’oscurità del proprio freddo,
il suo freddo che cadeva fuori di sé, fuori di qualsiasi idea
di sé descrivesse nel cadere; un qualcosa, una minuzia,
una macchia, un punto, un punto entro un punto, un abisso infinito
di minuzia; una canzone, ma meno di una canzone, qualcosa che
affoga in sé, qualcosa che va, un’alluvione di suono, ma meno
di un suono; la sua fine, il suo vuoto,
il suo vuoto tenero, piccolo che colma la sua eco, e cade,
e si alza, inavvertito, e cade ancora, e così sempre,
e sempre perché, e solo perché, una volta essendo stato, era…

II
Era l’inizio di una sedia;
era il divano grigio; era i muri,
il giardino, la strada di ghiaia; era il modo in cui
i ruderi di luna le crollavano sui capelli.
Era quello, ed era più di quello; era il vento che sbranava
gli alberi; era la congerie confusa di nubi, la bava
di stelle sulla riva. Era l’ora che pareva dire
che se sapevi in che punto esatto del tempo si era, non avresti
mai più chiesto nulla. Era quello. Senz’altro era quello.
Era anche l’evento mai avvenuto – un momento tanto pieno
che quando se ne andò, come doveva, nessun dolore era tanto grande
da contenerlo. Era la stanza che sembrava immutata
dopo così tanti anni. Era quello. Era il cappello
che s’era dimenticata, la penna lasciata sul tavolo da lei.
Era il sole sulla mia mano. Era il caldo del sole. Era come
sedevo, come attendevo per ore, giorni. Era quello. Solo quello.

— Mark Strand

Ciò che ricordo di me è quello che sei

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Poco a poco stai entrando nella mia assenza
goccia a goccia riempiendo la mia coppa vuota
là dove sono ombra non smetti di apparire
perché soltanto in te le cose si fanno reali
allontani l’assurdo e mi dai un senso
ciò che ricordo di me è quello che sei
giungo alle tue sponde come un mare invisibile.

— Alejandro Jodorowsky

Consacrato Blu

Laguna dello Stagnone. Marsala, Trapani.

Laguna dello Stagnone. Marsala, Trapani.

 

La poesia è tratta da questo bellissimo post dell’autrice: dedicata alla Sicilia.

*

Ridurre la piega che di netto
consacrato Blu
mi cava gli occhi?

O dirti
nei crostoni spumati
su saracene albe
affidate a chi non ha memoria?

E dirti, spaccando il bacio
insenato tra baie
spariglianubi, un soprassalto
di luce nel giorno?

Alba Gnazi
Agrigento, 25/07/2016