Categoria: Vibrare dentro

Il Diario di Pietra. Come le parole lacerano.

Alessandra Cotoloni, Il diario di Pietra
Alessandra Cotoloni, Il diario di Pietra

«[…] grafico metrico mobile della mortalità ospedaliera 10% per radiazioni magnetiche teletrasmesse 40% per malattie varie trasmesse o provocate 50% per odi e rancori personali provocati o trasmessi […]»

E’ un libro sulla durezza – e sulla rudezza – della parola.

Sull’intagliarla, scolpirla nella pietra. Sulla parola (silenziosa e negata) come oggetto di dolore; come mezzo di difesa, come arma acuminata; sulla responsabilità di pronunciarla, sull’essere perennemente tradita, incompresa, asservita.

E’ un libro sulla necessità di dire e “fare” parola; su ogni mezzo, con ogni mezzo. Fernando sul cemento di una parete ed un corrimano, con la punta di un ardiglione. Sul “fare” ad ogni costo: quando si è visti, quando si è letti, e quando no. Fino al tormento e allo strazio delle mani, che si fanno sempre più piccole e più tozze.

E’ un libro sull’amore di saper guardare; di saper decrittare: «Non sa la pazienza che mi ci è voluta per cercare di decifrarle; scriveva e faceva quei suoi disegni geometrici con indicazioni di date, elenchi di minerali e colori, parlava di luoghi, stati, città, elencava date di nascita di parenti immaginari, costruiva quelle sue strane genealogie mettendoci dentro di tutto, regine, papi, gente che aveva sentito nominare alla radio». Un libro sull’inventiva creatrice e dolorosa, su come la nostra mente sappia trovare una strada anche nel buio e nella sofferenza.

Benché molti passi siano romanzati, la storia – incredibile ed inquietante – di Nof4 è assolutamente da leggere. Per lunghi tratti la trovate ancora lì, dove è stata scolpita: sulle pareti del manicomio di Volterra, di cui è stato involontario “ospite” per 40 anni.

Sensazione

impossibile-amalgama-delle-cose-che-sono.jpg

I miei pensieri sono qualcosa che la mia anima teme.
Fremo per la mia allegria.
A volte mi sento invadere da
una vaga, fredda, triste, implacabile
quasi-concupiscente spiritualità.

Mi fa tutt’uno con l’erba.
La mia vita sottrae colore a tutti i fiori.
La brezza che sembra restia a passare scrolla dalle mie ore rossi petali
e il mio cuore arde senza pioggia.

Poi Dio diventa un mio vizio
e i divini sentimenti un abbraccio
che annega i miei sensi nel suo vino
e non lascia contorni nei miei modi
di vedere Dio fiorire, crescere e splendere.

I miei pensieri e sentimenti si confondono e formano
una vaga e tiepida anima-unità.
Come il mare che prevede una tempesta,
un pigro dolore e un’ inquietudine fanno di me
il mormorio di un incalzante stormo.

I miei inariditi pensieri si mescolano e occupano
le loro interpresenze, e usurpano
gli uni il posto degli altri. Non distinguo
nulla in me tranne l’impossibile
amalgama delle molte cose che sono.

Sono un bevitore dei miei pensieri
L’essenza dei miei sentimenti inonda la mia anima.
La mia volontà vi si impregna.
Poi la vita ferma un sogno e fa sfiorire
la bellezza nel dolore dei miei versi.

— Fernando Pessoa

Un giorno ci rivedremo

Un giorno ci rivedremo.

Un giorno ci rivedremo.


A D.

Un giorno ci rivedremo.
Eppure tu riassumerai sempre la mia vita,
come se fossi l’unico,
come se fossi l’ultimo.
Come una gazza avrò infilato il becco
in mille tronchi,
a cercare il mio rifugio migliore.

E quando anch’io volerò lassù,
cercandoti di stella in stella,
ci rivedremo.

Sentirò la vibrazione del tuo cuore
che incrinerà l’involucro perfetto
del mio mondo.
Così colmerò il vuoto del tuo odore,
berremo il nostro vino,
e sarà festa.
Mi regalerai di nuovo il tuo sorriso,
e vedrò il tuo volto in una luce
brillare più forte del dolore.

E allora nemmeno la morte,
così debole e distante,
ci potrà separare;
quando finalmente resterò con te,
papà.


Inspirata da Irene, che ringrazio tantissimo.

Aggiunta

Aggiunta di Billy Collins.

Il mare e la risacca.

Quel che ho dimenticato di dirvi in quell’ultima poesia
se avete prestato un minimo di attenzione
è che l’amavo davvero allora.
La luce marittima negli ultimi versi
poteva sembrare artefatta
e lo stesso si poteva dire
delle molte lune immaginarie
che ho detto ruotavano sul nostro letto mentre dormivamo,
del cosmo racchiuso dalle pareti della stanza.
Ma la verità è che ci piaceva
fare lunghe passeggiate sulle spiagge ventose,
non le spiagge fra il mare di lei
e la terra simbolica di me,
ma le vere spiagge di conchiglie vuote,
mentre il sole sorge e l’acqua viene avanti e ritorna.

— B. Collins

La casa degli alberi alti

La casa degli alberi alti.

La casa degli alberi alti.


A D.

Vieni con me,
nella casa degli alberi alti*.
Dove il vento fa
ghirlande alle fronde,
e il sole
regala la quiete che vibra.

Nella radura
disporremo il nostro lavacro;
asciugherò i tuoi piedi
e bacerò le tue mani.

Poi tu sola entrerai
e il mio amore ti seguirà.

Ritroverai la tua danza,
i tuoi canti,
le pagine fitte d’inchiostro,
la presenza di persone
a te care.
E io avrò questa lacrima idiota,
nel saperti felice di nuovo.


* E’ un verso della poesia “In mezzo a noi” di Luigi Finucci, dalla raccolta L’Ultimo Uomo

Sopra la follia. In equilibrio.

Fra i saliscendi delle Marche, fra gli zig zag delle strade da sembrare un ubriaco,  non ho pensato ad altro: equilibrio. Come un angelo che scivola sulla fune, sospeso nel vuoto. Oscilla appena, ma non vola. Appesantito dalla pertica che ha in mano, e lo incolla al cavo. Terminerà il percorso, stupirà il pubblico. Ma non volerà: come dovrebbe, come potrebbe. Come lo renderebbe felice.

Scrivo di te. Ma come mi capita spesso, scrivo di me. Sopralafollia. Non sarà un caso che è stata la tua parola segreta per molto tempo. Sopralafollia. E manca un pezzo: equilibrio.  Ci hanno insegnato così: di essere persone equilibrate, per bene. Non che sia un male: ma a volte, questo, invece di essere un trampolino di lancio dal quale esprimere se stessi, finisce per appesantirci.

Gli equilibri sono sempre così, precari. Io ho la doppia impressione che se l’equilibrio è il mezzo per la pacificazione, questo non è il mezzo per la felicità. La pacificazione di se, intendo. La pacificazione del vulcano: la lava scorre nelle viscere della terra, ma il camino, il alto – nero e grande – dorme un sonno secolare.

Finirà per esplodere. Oppure mai. Ma la lava corrode le viscere, scava antri e forni. Ci fa essere brave persone. Per gli altri. E solo poco per noi. E l’equilibrio non è più equilibrio, non è leggerezza, è un pesante vestito che indossiamo e che non ci fa muovere. Che non ci lascia esprimere. L’equilibrio si fa sul cemento dei nostri desideri, non sulla sabbia precaria di quello che si aspettano da noi.

———

“Potevo chiedere ad uno qualunque dei miei figli 
di parlare ancora male e ad alta voce di me. “

———

Ciao Bovo.

Vigor Bovolenta in azione

Stamattina sono rimasto con il cappuccino a mezz’aria, stordito.
“Lutto nella pallavolo: è morto in campo Vigor Bovolenta” diceva i tg radio. Bovo. La mia età; i ricordi della mia pallavolo.
In un attimo tutto quel periodo mi è tornato negli occhi: abbiamo giocato nello stesso periodo e condiviso la stessa emozione, la stessa gioia per la pallavolo. Facevi parte della seconda generazione di fenomeni, quella che ha vinto Coppa del Mondo e mille Word League.
Ci ho messo un po’ a riprendermi… “Bovo, cazzo…” e la barista mi ha guardato. Poi ho cercato il tuo volto sul giornale. Eri nelle pagine interne. “Si è accasciato sul terreno di gioco dopo la battuta, colpito da un infarto.” Io ho smesso di giocare, tu hai continuato. Ho visto i tuoi capelli farsi bianchi sul parquet, come è accaduto ai miei…
Vigor Bovolenta… Eri uno dei modelli della mia generazione. Il modello per i centrali. La tua elevazione, la tua grinta. E, si, anche quei movimenti a tratti sgraziati, eppure così efficaci. Così potenti. Di una fisicità prorompente. I pallavolisti si sentono un po’ fratelli sempre. Per il fatto di condividere, segretamente, la consapevolezza di vivere e giocare lo sport più bello del mondo.
Ti ricordo giocare con la maschera, forse proprio in quelle olimpiadi a cui appendesti al collo la medaglia d’argento. Ricordo la tua grintà feroce, il numero sedici, il tuo sorriso buono, nascosto da quel pizzo che celava il ragazzo e il papà. Ricordo il tuo braccio alto in battuta, che usavi come un mirino. E l’istinto del muro. Che non si impara, si ha: le braccia, forti, aldilà della rete. E l’aeroplanino, irriverente, in faccia a Despaigne.

Adesso apprendo che avevi scelto di rimanere a giocare in B2, perché ti piaceva il progetto della tua società, ma anche per la tua famiglia, per fare da chioccia ai giovani pallavolisti. Da lontano, lo sei stato un po’ per tutti: un riferimento buono. E se è vero come è vero che ci portiamo i nostri modelli nel cuore, dentro di noi, oggi muore qualcosa.

Alla tua famiglia, a tutta la pallavolo, tutto il mio cordoglio.
Che la terra ti sia lieve, Gigante.


Quasi amici. Complici.

Quasi Amici, Driss e Philippe

La prima battuta politicamente scorretta arriva dopo qualche minuto. “No no, tranquillo, non si alzi”, indirizzata al co-protagonista tetraplegico. La sala rumoreggia, un accenno di sorriso furbo: l’irriverenza della frase lascia la platea sospesa fra l’ironia e l’affronto morale.

Nel corso del film, le battute sullo stato di handicap di Philippe si susseguiranno. Incalzanti. A volte sarcastiche. Taglienti. Anche scorrette. Inizia così: con la semplicità disarmante di Driss, con la verità senza pietà della sue parole, la loro amicizia. Prima sguardi bruschi, che poi si addolciscono (e penso a “La vita non è aspettare che passi la tempesta, ma imparare a ballare sotto la pioggia”); si arrotondano alla schiettezza di questo ragazzo nero, robusto. Dai dentoni bianchi che scintillano quando sghignazza nel suo modo sguagliato. Che non sarà un campione di modo gentili, ma è senz’altro sincero. Come ne cercava da tempo: in fuga – Philippe – del pietismo spicciolo a perbenista che lo circonda.

E’ Untouchables, francese di produzione, tradotto maldestramente in italiano con Quasi Amici. La storia delicata, irriverente, a tratti goliardica, che sarebbe perfetta per un racconto di Natale. Tanto accende il cuore. Tanto mette in pace con il mondo, tanta è la fresca comicità che lo cuce come un abito delicatissimo. Tante sono le emozioni: perfettamente sottolineate dalla colonna sonora di Ludovico Einaudi.

Driss e Philippe. L’uno aristocratico benestante, l’altro appena uscito di galera, dei sobborghi di Parigi. L’uno riservato, intellettuale, amante dell’arte e della musica classica. L’altro prorompente, eccessivo, di più: dissacratore. Distanti, mondi diversi, eppure così simili. I motori, la velocità, il senso del limite, (o il non-senso del limite…): sono le prime cose che li uniscono.
Poi. Poi, si vedono complici – e lo sono – nel senso di giustizia. Nella loro voglia di libertà. Nella loro voglia di sincerità. Di affetto vero: di essere apprezzati così come sono. E chissà quanto sia contato per Driss, il fatto che Philippe gli abbia richiesto il suo uovo, quello di suo moglie, quello che Driss gli aveva rubato, solo dopo averlo assunto. Un altro modo di accettare l’altro: anche come ladro…

Il loro diventare complici è un movimento profondo. Che inizia con la consapevolezza che l’altro è una fonte di vita, di ispirazione. Un approccio lento, ma costante. Driss inizia a dipingere, Philippe accetta di indossare – orgoglioso – un orecchino simile a quello del suo amico. Questo inizia ad usare termini indecenti, quello inizia a vestire come un damerino. Poi la musica: dal primo scontro, ad elemento di unione. Quella classica che ascolta Philippe interessa Driss. A modo suo, naturalmente: “Bach è il Berry White dell’epoca”, dice; e dell’Inno alla Gioia: “Ma si, questa la conoscono tutti! E’ dell’ufficio collocamento di Parigi”. Ride Driss – scintillano i suoi dentoni -, ride la platea, confortata dal vedere che anche le sventure più terribili si possono trattare con ironia. E starne bene, senza mentirsi. Ride Philippe. Che poi balla anche lui – al ritmo dei Kool & the Gang – come può: ondeggia il capo; danzano i domestici, alla musica di Driss. Che balla. Oscilla come un giunco. In un movimento purissimo e ristoratore. E’ un atto di gioia. Di liberazione. Che coinvolge – come non potrebbe – anche il suo amico.

Amare è riconoscersi. E’ scambiarsi pezzi di se stessi con l’altro. O un po’ di musica. O una parola. O il vezzo di un gesto. E’ questo infiltrarsi, continuo e costante, nell’altro per renderlo diverso da sè. Eppure così uguale. E’ capire, senza dire. E’ chiedere, senza parole…

Chiedere, senza parole. E accade che il secondo incontro fra Philippe e Eleonore non sia invocato. La loro corrispondenza epistolare dura da un po’, ma Philippe non riesce ad incontrarla. Si sente inadeguato, e con un conto in banca troppo ampio per essere apprezzato per quel che è.
Driss – che nel frattempo ha trovato un altro lavoro – ci mette del suo: dopo una notte trascorsa insieme alla guida della loro auto – immersi nella malinconia degli amici , e un po’ degli innamorati, l’aria che li fa “respirare un po’” – , zigzagando come pazzi fra le strade di Parigi, dopo del tempo passato a riempirsi della bellezza del mare, la stessa bellezza resta a due passi. Quelli fra il ristorante – dove Driss ha prenotato – e la spiaggia. Si vede il mare, da lì. Più tardi la darsena, e Driss che se ne va.
Permette il suo amico incontrare Eleonore, organizzando il loro incontro. Un gesto non richiesto, di cui si prende – un po’ incosapevolmente, come ogni cosa che fa – la responsabilità. A Philippe non è bastato non chiedere. Perchè, in fondo, la richiesta – muta – gli arrivava silenziosa dal cuore. All’amico è stato sufficiente coglierla. Come dire: a volte è necessario prendersi le propri obblighi quando si tratta della felicità di qualcuno…
Poi Driss se ne va, e con la consueta ironia: “Stavolta non puoi scappare”; Philippe si agita sulla sedia, “Cos’è questa storia?”. Arriva Eleonore. Driss, da dietro i finestroni, fa un sorriso, Philippe gli risponde di rimando – un sorriso tranquillo che è più di un grazie: è un atto di complicità – poi il ragazzo accenna un saluto, e via lungo la darsena.

E’ un film intenso. In mezzo – oltre all’amicizia, al concetto di diversità – molti altri temi. Trattati con un’ironia, e una delicatezza, che non toglie spazio al pensare, ma riempie di emozioni. E anche di risate. E motivi per riflettere.

Anime salve. Anime uniche

Ogni volta che mi sento come mi sento in questi giorni, penso a questa canzone. Devo a Laura di avermela fatta conoscere.
Anime Salve.
Chi conosce Faber meglio di me, sapranno che il brano parla di anime solitarie, nella precisa accezione etimologica dei termini. Io ho deciso che no. Anime Salve parla del concetto di salvezza, ma in chiave del tutto laica: lasciare la vita, stare per farlo, abbandonandosi all’idea di aver fatto tutto il possibile. Aver salutato chi si doveva, come si doveva. Aver detto “Ti voglio bene” alle persone ai cui lo vogliamo; aver speso la nostra vita nel fare cioè che si sentiva di dover fare, senza sprecare tempo. O farlo minimante. Aver fatto la propria vita, aver ricercato la propria strada.
Non quella che gli altri ci mettono addosso.

Forse solitudine e salvezza significano la stessa cosa, a ben guardare. La propria salvezza passa attraverso la propria solitudine: di concepire la propria unicità, in cui siamo soli. E perseguirla. Al massimo, dal nostro prossimo, possiamo chiedere compagnia. Compagnia nel viaggio della vita, compagnia viva e calda – ma non inopportuna – nei parole, nei gesti. Nelle emozioni.

E, infine, la disperata speranza che quella bella compagnia, che il restare nel cuore degli altri anche dopo la nostra morte, è tutto ciò che possiamo per rimanere.

Speranza e autostop

autostop

Una curva nel buio, e spunta un braccio alzato, e un pollice che chiede un passaggio. Mi fermo. Infila la testa nell’abitacolo un ragazzo mingherlino, intabarrato in giaccone nero e sciarpa bianca, che chiede, con il suo dialetto incerto e l’indice verso il paese: «Vai a Montevidone?»
Si, Montevidone. Sale. Lo adocchio appena. Qualche secondo e «Torni dal lavoro?»
«No, ero da un amico» pausa «faccio il muratore, io» Io. Una ventina d’anni al massimo; il viso allungato, lineamenti decisi.
«Beh con questa neve non avrete lavorato molto»
«Abbiamo lavorato poco. Gennaio per niente, Febbraio qualche lavoretto. Smontato qualche impalcatura… Roba da niente» Smontare impalcature, roba da niente. Mica come stare alla scrivania…
«Con Marzo speriamo di ripartire forte»
E si frega le mani. «Giornate più lunghe, inizierà a scaldarsi un po’»
La sua voce è un femito, un fremito d’acciaio. Intriso di lavoro, del suo passato; di voglia di fare, della sicurezza che vede nel suo futuro. Del vigore che ha per costruirlo. Di sudore e di muscoli. Dei mattoni che tirerà lassù, con cui costruirà quella casa. E la sua vita.

E io, mi sento piccolo piccolo. Con i miei mille problemi in testa, con un entusiasmo sempre da tirare per le orecchie. Da dietro una scrivania.

Grazie. E che dio ti benedica, ragazzo.

La danza

Neve

Lasciami danzare dentro di te,
nel caldo del tuo ventre,
lieve come uno sbuffo di neve.

Scaldami
come questa coltre di bianco
che rifugia la terra
in un rigo di luce,
e una virgola di suono.

La tristezza ci sembrerà
un’ala di tenebra
e il tuo calcagno,
duro sui miei lombi,
un dolore
appeso al bordo dei tuoi occhi.

Trieste

Vista di Trieste dall'alto

Dopo monti, boschi e mare, Trieste è là dove ci si aspettano solo leoni. Oltre la montagna e il blu con le antenne, ecco la città: una anziana nobildonna, degna e austera. Bellissima.

——–

Ho attraversata tutta la città.
Poi ho salita un’erta,
popolosa in principio, in là deserta,
chiusa da un muricciolo:
un cantuccio in cui solo
siedo; e mi pare che dove esso termina
termini la città.

Trieste ha una scontrosa
grazia. Se piace,
è come un ragazzaccio aspro e vorace,
con gli occhi azzurri e mani troppo grandi
per regalare un fiore;
come un amore
con gelosia.
Da quest’erta ogni chiesa, ogni sua via
scopro, se mena all’ingombrata spiaggia,
o alla collina cui, sulla sassosa
cima, una casa, l’ultima, s’aggrappa.

Intorno
circola ad ogni cosa
un’aria strana, un’aria tormentosa,
l’aria natia.
La mia città che in ogni parte è viva,
ha il cantuccio a me fatto, alla mia vita
pensosa e schiva.

U. Saba

Scrivo di arcobaleni

Scrivo di arcobaleni
e di come il mondo sappia stare
nel solco delle tue mani
lucente come una moneta d’oro.

Scrivo di sorrisi
e della meraviglia di vederti
trasformare il graffio in un grido
e il grido in poesia.

Scrivo di aquiloni
che mietono venti e
arano nuvole chiare;
perse, e ritrovate, nei tuoi occhi.

Nessun graffio, nessun verso,
nessuna sussulto,
nè io,
tocchino il senso
che ti appartiene.

Il desiderio

[…] Lei desiderava un sorriso. Una musica muta. Una riva di mare. Per bagnarsi. Il suo amore impossibile. I suoi piedi nudi e piagati. I suoi meschini capelli. Lei ignorava che il ricordo è un ferro piantato alla porta. Non sapeva nulla. Della perfezione del passato, del massacro delle notti solitarie. Non sapeva che il più grande desiderio è un niente che s’inventa stranissime cose […]

Alda Merini