Etichettato: dolore

Gaia Tortora, in cerca di giustizia giusta.

Gaia Tortora, Testa alta e avanti
Gaia Tortora, Testa alta e avanti

«Credo nel potere delle storie di cambiare il mondo, e spero che, almeno un po’, possa avercelo anche la mia».

Amo la Giustizia quanto ho avversione per i sui (necessari) riti e le sue regole. Mi rendo conto di non saper calare cerimonie e norme nei fatti e nelle storie che leggo; a volte ogni passaggio nella forma della legislazione mi sembra assurdo e lontano.

Per questo il tempo dedicato a leggere il libro di Gaia Tortora “Testa alta e avanti. In cerca di giustizia, storia della mia famiglia” mi ha riconciliato con un tipo di lettura che non facevo da tempo. Quello della Giustizia che si mischia con le storie e le vicende delle persone: in questo libro, specificatamente, con la storia della famiglia Tortora, violentata da una malagiustizia decisamente più criminale che negligente.

L’autrice parla del suo mondo di bambina messo a soqquadro da un evento inspiegabilmente doloroso e kafkiano che si schianta sulla sua vita di quattordicenne cambiandola per sempre.
Lei ne ricostruisce i passaggi, la storia, i volti, le mani di chi l’ha tenuta (Piero Angela -sì-; la zia materna), gli occhi di chi l’ha guardata (Carlo Romeo da Teleroma 56), la forza (da “soldato”, da “guerriera” come si definisce), il carcere terribile e la corrispondenza dolcissima, “il sorriso usato come scudo”, la sua amica Stefania e la “sorellona” Silvia. Il giornalismo; il dolore vissuto in apnea. Infine, ad anni di distanza, il crollo e la rinascita (“mi sono sentita nascere per la prima volta”).

Sono traiettorie che Gaia Tortora ha dovuto seguire, a volte senza coscienza, a volte solo perché era ineluttabile farlo; altre le ha seguite per scelta, per desiderio oltre il dolore e la tragedia, oltre quel velo di perdita di cui sono coperte tutte le sue cose.

Parla del suo dramma, del silenzio in cui si è calata (“facevo la mia parte così, arrangiandomi”), del lento cammino (costantemente in evoluzione) verso se stessa, degli inciampi e dei piccoli successi. Parla di Giustizia (“voglio che questa battaglia faccia parte di me”) in modo elaborato; è chiaro che quello che scrive è frutto di una coscienza profonda, misurata, un abito indossato con eleganza e decisione, con prudenza e sobrietà. Descrive il tracollo della giustizia italiana (“Siamo diventati la bara del diritto”) in modo minuzioso, dettagliato ma mai definitivo. Snocciola numeri, vicende, storie per raccontare – tenendosi lontano, come dice, dalla tifoserie e dalle strumentalizzazioni – le vicende nelle aule giudiziarie, nelle carceri (“quel ‘clang’ delle porte scorrevoli […] chi non è abituato non se lo aspetta, fa trasalire”), i rapporti politica-magistratura, il pentitismo, la magistratura-spettacolo e le troppe volte in prima serata.

Ne ha per tutti. Con decisione, con coraggio, ma in modo garbato, quasi con tenerezza. Alla tenerezza cede solo una volta, ricordando il perdono chiesto da Melluso: “Sono pronto ad inginocchiarmi davanti alla sua famiglia”. “Stia pure in piedi” rispose con orgoglio.

Da persona informata, ne ha anche per la categoria a cui appartiene, quella del giornalismo, a cui imputa gran parte del dolore causato da sentenze spettacolarizzate (“un giornalismo aggressivo che punta a vendere tre copie in più” e che invece dovrebbe limitarsi “a dare le notizie, non interpretarle”). Lo fa non solo enunciando principi ma accettando di essere la rompiscatole di redazione attenta ai dettagli, ai nomi, agli aggetti, ai virgolettati: e quindi attenta a non calpestare -oltre- la vita delle persone.

Vi piacerà. E’ un libro che può essere letto da tante angolazioni. Dovrebbero leggerlo chi ha fatto della Giustizia il proprio lavoro; i giornalisti che vi troveranno una nuova traccia imperfetta riguardo il proprio mestiere; i cittadini che vogliono conoscere il marchingegno (a volte infernale) della giustizia italiana; o semplicemente i lettori a cui piace leggere storie di rinascita. Se a questa si giunge mai.

PS. Portobello -nonostante i silenzi in trasmissione- parlava. Con Gaia e Silvia: le bambine gli avevano insegnato tante parolacce.

Il Diario di Pietra. Come le parole lacerano.

Alessandra Cotoloni, Il diario di Pietra
Alessandra Cotoloni, Il diario di Pietra

«[…] grafico metrico mobile della mortalità ospedaliera 10% per radiazioni magnetiche teletrasmesse 40% per malattie varie trasmesse o provocate 50% per odi e rancori personali provocati o trasmessi […]»

E’ un libro sulla durezza – e sulla rudezza – della parola.

Sull’intagliarla, scolpirla nella pietra. Sulla parola (silenziosa e negata) come oggetto di dolore; come mezzo di difesa, come arma acuminata; sulla responsabilità di pronunciarla, sull’essere perennemente tradita, incompresa, asservita.

E’ un libro sulla necessità di dire e “fare” parola; su ogni mezzo, con ogni mezzo. Fernando sul cemento di una parete ed un corrimano, con la punta di un ardiglione. Sul “fare” ad ogni costo: quando si è visti, quando si è letti, e quando no. Fino al tormento e allo strazio delle mani, che si fanno sempre più piccole e più tozze.

E’ un libro sull’amore di saper guardare; di saper decrittare: «Non sa la pazienza che mi ci è voluta per cercare di decifrarle; scriveva e faceva quei suoi disegni geometrici con indicazioni di date, elenchi di minerali e colori, parlava di luoghi, stati, città, elencava date di nascita di parenti immaginari, costruiva quelle sue strane genealogie mettendoci dentro di tutto, regine, papi, gente che aveva sentito nominare alla radio». Un libro sull’inventiva creatrice e dolorosa, su come la nostra mente sappia trovare una strada anche nel buio e nella sofferenza.

Benché molti passi siano romanzati, la storia – incredibile ed inquietante – di Nof4 è assolutamente da leggere. Per lunghi tratti la trovate ancora lì, dove è stata scolpita: sulle pareti del manicomio di Volterra, di cui è stato involontario “ospite” per 40 anni.

Baraye

Per la libertà.

Per il desiderio di ballare nelle strade.
Per il timore di baciarsi in pubblico.
Per mia sorella, per tua sorella, per le nostre sorelle.
Per cambiare quelle menti corrotte.
Per la vergogna della povertà.
Per l’augurio di una vita normale.
Per i bambini costretti a cercare nella spazzatura, e per i loro sogni.
Per questa economia di regime.
Per quest’aria inquinata.
Per la via Valiahd e i suoi alberi consumati.
Per l’estinzione del Pirooz.
Per i cani randagi banditi.
Per questo singhiozzare inconsolabile.
Per non ripetere più questo momento.
Per un viso sorridente.
Per gli studenti, per il loro futuro.
Per questo “paradiso” forzato.
Per gli intellettuali imprigionati.
Per i bambini afghani.
Per tutti questi, troppi, “per”.
Per tutti questi slogan senza senso.
Per il crollo di questi fragili edifici.
Per sentirsi in pace.
Per l’alba dopo queste notti scure.
Per gli psicofarmaci e l’insonnia.
Per l’uomo, la patria, la prosperità.
Per quella ragazza che desiderava essere un ragazzo.
Per la donna, la vita, la libertà.

***

Shervin Hajiaghapour è stato arrestato per questa canzone, poi liberato su cauzione.

La traduzione è mia, dall’inglese.

Chain of our sins: il racconto di Bruce.

Sign of brotherhood. Chi ama Bruce sa che di quel “chain of our sins” è intrisa tutta la sua musica. Tutta la sua arte. Tutta la sua storia. Tutta la sua vita.
C’è quel senso di redenzione e sconfitta, di breve successo e bruciante malinconia in ogni nota: la misura non solo della distanza dal sogno americano (come disse una volta) ma la distanza di quello che è, è voluto profondamente essere, scegliendo differenziazione, rottura, indipendenza. La sua distanza dal gorgo “dei peccati”. Un gorgo dove l’amore di suo padre, e per suo padre, era la cifra della difficoltà e del dolore. E’ stato un lungo percorso rendersene conto.

Potessi, gli direi che gli voglio bene. Potessi lo abbraccerei quando raccontando quello che racconta, si emoziona. E piange.

Questo è l’intro a Long Time Comin’, live al Kerr Theatre, a New York, NY nel Luglio 2018. Questo il testo trascritto in inglese.

“Erano gli ultimi giorni della prima gravidanza di Patti. E ricevo una visita a sorpresa da parte di mio padre, a casa mia, a Los Angeles. Aveva guidato 500 miglia, senza preavviso, per bussare alla mia porta. Questo è il suo stile. Quindi, alle 11:00, ci sediamo nella sala da pranzo illuminata dal sole e ci prendiamo delle birre del mattino; questo è il suo stile. Questa è la colazione dei campioni di mio padre.

Mio padre, che non è stato mai un uomo loquace, giusto, ad un tratto dice: “Sei stato molto buono con noi”. Annuisco, era la verità, e lui continua: “Ed io non sono stato molto buono con te”. La stanza mi sembrò si fermasse. Rimasi shockato: l’inammissibile veniva per la prima volta riconosciuto [the unacknowledgeable was being acknowledged]. E se non lo avessi saputo, avrei giurato che mi stesse chiedendo scusa in qualche modo; così era.

Quindi negli ultimi giorni prima che diventassi padre, mio padre veniva a trovarmi per avvertirmi degli errori che aveva commesso e per avvertirmi di non farli con i miei figli. Liberarli dalla catena dei nostri peccati, di mio padre e miei e dei nostri padri prima, affinché siano liberi, di fare le proprie scelte e di vivere la propria vita. Possiamo essere fantasmi o essere antenati nella vita dei nostri figli. O poniamo i nostri errori, i nostri fardelli su di loro e li perseguitiamo, oppure li aiutiamo a deporre quei vecchi fardelli e li liberiamo dalla catena del nostro comportamento imperfetto.

E come antenati, camminiamo al loro fianco e li aiutiamo a trovare la propria strada e un po’ di trascendenza. Mio padre, quel giorno, mi chiedeva un ruolo ancestrale nella mia vita dopo essere stato un fantasma per molto tempo. Voleva che scrivessi una nuova fine alla nostra relazione e voleva che fossi pronto per il nuovo inizio che stavo per vivere. È stato il momento più bello della mia vita con mio padre, ed era tutto ciò di cui avevo bisogno

Poi è iniziata Long time comin’:

[…] It’s been a long time comin’, my dear
it’s been a long time comin’
but now it’s here

Well my daddy he was just a stranger
lived in a hotel downtown
when I was a kid he was just somebody
somebody I’d see around
somebody I’d see around

Now down below and pullin’ on my shirt
I got some kids of my own
well if I had one wish
in this god forsaken world, kids
it’d be that your mistakes would be your own
yeah your sins would be your own […]

Il senso di questa Politica

Marco Cappato a San Benedetto del Tronto per promuovere il referendum sull'eutanasia legale.
Marco Cappato a San Benedetto del Tronto per promuovere il referendum sull’eutanasia legale.

La signora in pantaloni gialli e la mascherina azzurra appare mentre allestiamo il gazebo. Si guarda intorno spaesata, quindi si allontana rimpicciolendosi ad un angolo opposto.

Poco dopo arriva Marco Cappato, caduto nella sua mise consolidata: gli orribili mocassini, la camicia stropicciata nei calzoni senza cinta. La capigliatura improponibile, il solito sorriso gigione e sincero. Unica novità: il leggero brizzolato che gli tinge le basette.
Marco è lui. Puntuale e mai retorico. Appassionato e appassionante. Le persone fanno capannello intorno alle sue parole. Lo ascoltano attente.

La signora dai pantaloni gialli si avvicina. Inizia a filmare. Filma tutto l’intervento. Poi, al termine, è la prima ad avvicinarsi a Marco. Lei gli dice qualcosa. Lui sorride. Poi ammutolisce, mentre lei ha ancora la sua mano nella sua. Pochi attimi ancora, forse un ringraziamento, e la signora se ne va.
Incrocio i suoi occhi: sopra la mascherina, sono rossi, umidi di emozione. E di dolore. Profondo. Contingente.

La seguo con lo sguardo. Mi dico che forse, di quel dolore, stasera, la signora dai pantaloni gialli, ha trovato il giusto riscatto. E un po’ di sollievo.

E nei suoi occhi, questa Politica, tutto il suo senso.

Un giorno ci rivedremo

Un giorno ci rivedremo.

Un giorno ci rivedremo.


A D.

Un giorno ci rivedremo.
Eppure tu riassumerai sempre la mia vita,
come se fossi l’unico,
come se fossi l’ultimo.
Come una gazza avrò infilato il becco
in mille tronchi,
a cercare il mio rifugio migliore.

E quando anch’io volerò lassù,
cercandoti di stella in stella,
ci rivedremo.

Sentirò la vibrazione del tuo cuore
che incrinerà l’involucro perfetto
del mio mondo.
Così colmerò il vuoto del tuo odore,
berremo il nostro vino,
e sarà festa.
Mi regalerai di nuovo il tuo sorriso,
e vedrò il tuo volto in una luce
brillare più forte del dolore.

E allora nemmeno la morte,
così debole e distante,
ci potrà separare;
quando finalmente resterò con te,
papà.


Inspirata da Irene, che ringrazio tantissimo.

Ciao Bovo.

Vigor Bovolenta in azione

Stamattina sono rimasto con il cappuccino a mezz’aria, stordito.
“Lutto nella pallavolo: è morto in campo Vigor Bovolenta” diceva i tg radio. Bovo. La mia età; i ricordi della mia pallavolo.
In un attimo tutto quel periodo mi è tornato negli occhi: abbiamo giocato nello stesso periodo e condiviso la stessa emozione, la stessa gioia per la pallavolo. Facevi parte della seconda generazione di fenomeni, quella che ha vinto Coppa del Mondo e mille Word League.
Ci ho messo un po’ a riprendermi… “Bovo, cazzo…” e la barista mi ha guardato. Poi ho cercato il tuo volto sul giornale. Eri nelle pagine interne. “Si è accasciato sul terreno di gioco dopo la battuta, colpito da un infarto.” Io ho smesso di giocare, tu hai continuato. Ho visto i tuoi capelli farsi bianchi sul parquet, come è accaduto ai miei…
Vigor Bovolenta… Eri uno dei modelli della mia generazione. Il modello per i centrali. La tua elevazione, la tua grinta. E, si, anche quei movimenti a tratti sgraziati, eppure così efficaci. Così potenti. Di una fisicità prorompente. I pallavolisti si sentono un po’ fratelli sempre. Per il fatto di condividere, segretamente, la consapevolezza di vivere e giocare lo sport più bello del mondo.
Ti ricordo giocare con la maschera, forse proprio in quelle olimpiadi a cui appendesti al collo la medaglia d’argento. Ricordo la tua grintà feroce, il numero sedici, il tuo sorriso buono, nascosto da quel pizzo che celava il ragazzo e il papà. Ricordo il tuo braccio alto in battuta, che usavi come un mirino. E l’istinto del muro. Che non si impara, si ha: le braccia, forti, aldilà della rete. E l’aeroplanino, irriverente, in faccia a Despaigne.

Adesso apprendo che avevi scelto di rimanere a giocare in B2, perché ti piaceva il progetto della tua società, ma anche per la tua famiglia, per fare da chioccia ai giovani pallavolisti. Da lontano, lo sei stato un po’ per tutti: un riferimento buono. E se è vero come è vero che ci portiamo i nostri modelli nel cuore, dentro di noi, oggi muore qualcosa.

Alla tua famiglia, a tutta la pallavolo, tutto il mio cordoglio.
Che la terra ti sia lieve, Gigante.


La danza

Neve

Lasciami danzare dentro di te,
nel caldo del tuo ventre,
lieve come uno sbuffo di neve.

Scaldami
come questa coltre di bianco
che rifugia la terra
in un rigo di luce,
e una virgola di suono.

La tristezza ci sembrerà
un’ala di tenebra
e il tuo calcagno,
duro sui miei lombi,
un dolore
appeso al bordo dei tuoi occhi.

Ero leggera come una nuvola

Nuvola

La foto è di Flavia Daneo

 

Ero leggera come la tua nuvola
poi venni appesantita dal dolore
la musica del tuo palcoscenico
diventò un ringhio feroce.
Non ti voglio parlare delle mie pene umane
ma delle pene disumane di coloro che odiano,
che odiano l’arte e la sua sconfinata terra.
Mi trovai a ballare anch’io in un deserto assoluto
dove non c’era un amore, ma io so che se tu danzi
un dio segreto ti vede e accompagna i tuoi passi.

— Alda Merini

 

Dolore

L’unghia ritorta
che corrode la carne;
il sussulto netto
del ciglio;
un tormento storpio
rabbercia la mente,
e percuote i polsi dolenti.

Calati sul fianco
della voragine,
brandelli di suoni
gonfiano gli occhi
e scavano il vuoto.

L’affanno
della mancanza
vuota l’anima
di bene
e la colma
di niente.

Risuona nella natura

Parole curve
nelle lacrime di vetro;
tesa inquietudine
che un pianto gorgoglia.

Il bacio del mattino
grigio e stanco;
un freddo velato
come un gemito caldo.

Suoni afoni,
oltre la porta,
tesi
nel biascicare del vento;
e il graffio del mare
che s’impenna di bianco.

Resta, senza tregua,
un dolore piatto
oltre il confine di sé.

Giglio nero

A B.

Non lasciare,
anima bianca,
che l’artiglio
gelido
del dolore
ti sbrani.

Rivoli di bile,
dall’indotto
nero
dello stomaco,
al ghigno delle labbra.
Sorrisi grigi,
ombre bianche,
nel solco
duro
del volto.

Viscere arse
come sterpaglie,
piaghe bruciate
di sale,
parole come macigni
è la pace che vuoi,
e che ti annienta.
Senza voci,
nè grido.

Spilli di vita
nella memoria di piani verdi,
di stracci di nubi rosse,
di reti tese a giocare,
in auto grandi come navi.

Nei cerchi di fango
gigli e sorrisi chiari,
desideri da cogliere,
e far fiorire
nell’incavo delle tue mani.

Il mostro
che ti divora
è un cucciolo
mite,
senza di te.