Etichettato: concerti

Roberto Vecchioni, l’ultimo maestro rimasto.

Roberto Vecchioni allo Squadre Music Festival, Montegiorgio
Roberto Vecchioni allo Squadre Music Festival, Montegiorgio

Sono stati diversi i momenti intensi, due giorni fa, durante il concerto di Roberto Vecchioni.

E’ salito sul palco alle 22 esatte, attaccando con la splendida “Ti insegnerò a volare” e ricordandoci, quando non sappiamo “correre e nemmeno camminare”, l’importanza di essere visti, sorretti e disegnati.

Ha una voce un po’ più flebile il Prof, ma la sua mente è sempre acuminata, e il suo modo di raccontare e raccontarsi sempre piacevole. Dice cose importanti, sull’amore soprattutto; sul suo amore, soprattutto; le intervalla con ironia, nostalgia e senso del presente, disegnando questo caleidoscopio di colori dove la musica è parte del racconto, è parte della vita che ha vissuto e che vive.

“Non ci sono più maestri” – dice – “io io ne ho avuti tanti”, e inizia El Bandolero Stanco. E a me viene in mente quel viaggio con Vincenzo, dalle Marche fino a Roma, solo per strade urbane, ad ascoltare questi nostri autori. Vincenzo sapeva interpretarlo magnificamente, aggiungendo aneddoti ad ogni canzone, e sapeva, forse di più, emozionarsi davanti alla sua poesia e alle sue parole. Davanti al treno de La Stazione di Zima, ad esempio. Testimoni di maestri, passati di mano in mano. Che mancano tanto.

E poi ci sono state quelle due/tre canzoni in cui la recente storia personale (il suo rapporto con la morte, e la morte terribile di suo figlio solo qualche settimana fa) ha invaso la scena. “C’è una madre distrutta” aveva sussurrato su qualche canzone prima. E ogni volta che parla di Daria, per tutta la sera in questo continuo e bellissimo omaggio alla persona che è con lui “quasi” da sempre, lo fa con grazia e ironia. E consapevolezza: “Che fortuna che ho avuto”.

“Siamo al culmine”, dice. “Devo farla, perché l’artista è colui che racconta. Senza non è niente”. E canta Le Rose Blu. In questo che chiama “dialogo, non una preghiera”, dice a Dio per suo figlio: “Fagliele rifiorire”. E mi ritrovo anche io con questo pensiero eretico, eppure così umano. Che Dio avrebbe potuto, avrebbe addirittura dovuto. Invece c’è solo questo dolore, il suo e della mamma di Arrigo, che ha reciso la corolla facendo rimanere solo il gambo di spine. Arriva al termine il Prof, emozionato e piangente, piegato in due. Attraversando quel quel dolore, senza sottrarsi a nulla. Senza sottrarsi mai.

Un momento prima di iniziare questa canzone, dice una frase di grande tenerezza. Ha detto: “Adesso questo momento di intensità, poi proverò a farvi ridere”. Proverò a farvi ridere. Come se avesse voluto scusarsi per averci invaso della sua emozione e del suo dolore. Come se avesse voluto aver cura di noi; dirci che quel dolore sarebbe passato, e sarebbe tornata la gioia. Quella che per tutta la serata ci ha dato: gioioso della vita senza finzione, addolorato con la stessa vita che gli tolto suo figlio. Ma succede così per tutte le sue cose: hanno la capacità di farsi ampie, spesso doppie, a volte contrastanti, ma sempre intrecciate dallo stesso filo rosso dell’amore.

Una carriera lunghissima, 53 anni a scuola, 80 anni da poco compiuti. Un ultimo album con tantissime cose dette, musicalmente e non e uno spettacolo capace di far comparire sulla scena Ulisse, Vincent Van Gogh, Leopardi, la combattente curda Ayse Deniz Karacagil. Non so chi altri sia stato così intenso da intrecciare letteratura e poesia. Letteratura, musica, poesia e amore così strettamente alla propria vita.

Cosa è cambiato. E cosa no.

Cosa è cambiato: la fronte più alta, il viso scavato, la fessura degli occhi. Quei capelli lanuginosi sul collo, che fanno il paio con il taglio di Max, meno bancario e più ragioniere. Gli occhiali di Garry, gli orecchini pendenti di Steve. Gli schermi verticali.

Non è cambiato: i plettri attaccati all’asta, i polsini alle mani. Il ciglio che si alza, il canino che si scopre, il pugno quando penneggi la chitarra. La Telecaster con il manico Esquire. Il modo religioso con cui ti avvicini al microfono. Le chiese, e le galere. La Chevy del ’69 e l’estate che è qui. La bandana di Steve. La chitarra nera di Patti, lo sguardo fisso di Max. Clarence, che continua a non esserci, eppure c’è. I tuoi occhi chiusi che seguono la coda di piano di Roy. Il braccio che si alza, e segue un poco alla volta.

E la voglia di vederti. L’emozione della sorpresa, come fosse la prima. E forse lo è.