Categoria: Politica

Enzo Tortora. Le lacrime per questa giustizia ingiusta.

Avvocato Raffaele Della Valle
L’avvocato Raffaele Della Valle

E’ un frame del docufilm trasmesso ieri in Rai su Enzo Tortora. Lui è l’avvocato Raffaele Della Valle un attimo dopo la sentenza di assoluzione di Enzo. Singhiozza, in lacrime.

Mi ha impressionato molto questo suo pianto. Nel film – imbolsito e con gli stessi occhi chiari, a quasi quarant’anni dagli eventi – parla di questa vicenda ancora con commozione profonda quando ricorda la prima sentenza: “Ero disperato, non tanto professionalmente, quanto perché capivo che avesse perso la giustizia. La sconfitta ero devastante, e mi sono sentito molto solo”.
La solitudine di una persona che vede crollare i pilastri della propria vita, da avvocato, ancor più da cittadino; della civiltà a cui appartiene. “Non c’era modo di farsi ascoltare” dice ancora in un passaggio. Qualcosa in cui precipitare, senza fondo, un gorgo senza sostegni e senza suono.

Il crimine giudiziario che subì Enzo Tortora andrebbe raccontato sempre, ogni giorno. Perché è una storia assurda come è iniziata (una complotto perverso fra giudici e pentiti); orribile come si è dipanata in modo kafkiano e infernale (7 mesi di carcere e la pervicace, accanita necessità del colpevole); e l’inaccettabile irresponsabilità dei giudici, nessuno dei quali messi mai di fronte alle loro colpe.

Quei pilastri non sono ancora così solidi. 900 errori giudiziari all’anno sono una ferita terribile e sempre sanguinante per questo stato di diritto. La lotta di Enzo non è ancora terminata.

“Non devono”. Il proibizionismo uccide sempre.

Ministro Piantedosi

“Non devono partire”.
“Non devono drogarsi”.
Per giunta: “Non devono morire”.

Il proibizionismo uccide e produce dolore. Un dolore sordo perché inspiegabile, perché contro scelte private. E continuerà a farlo. finché non ci saranno soluzioni legali, di diritto, che le persone possono utilizzare. Vale per la droga, l’immigrazione, il fine vita. Vale sempre.

Uno stato che sente di difendersi da comportamenti privati è uno stato etico (e non è un caso che nella conferenza stampa di ieri Piantedosi indichi comportamenti “morali”, secondo la propria moralità). E’ uno stato etico tout court, e destinato a fallire perché si pone lontano dalla ragione per cui, modernamente, è stato pensato: limitarsi a difendere le libertà di ognuno.

In Italia di politici (progressisti o conservatori) che pensano che la libertà debba avere una motivazione giustificata dallo stato, un confine oltre a quello unico del privato dell’altro, sono tanti e troppi: da destra come a sinistra lo sfascio dall’accordo Italia-Libia di Berlusconi e di Gentiloni; i voti del PD contro la Cannabis legale; il silenzio continuo sull’Eutanasia; Calenda che fa il ventriloquo a Piantedosi (“fermare le rotte illegali” senza proporne di legali) sulla tragedia di queste ore. E mi fermo qui per carità di patria.

Sono tutti potenti impotenti di fronte alla coscienza di ogni cittadino, piccoli dittatorelli insulsi che credono di poter imporre la propria morale a ogni migrante, a ogni persona che aspiri a qualcosa di meglio per sé, o che vive (semplicemente vive) un proprio privato comportamento: è sempre la violenza di chi paventa la legge e il carcere contro il proprio legittimo desiderio, contro scelte private. Perderanno sempre. E’ solo questione di tempo.

Per il momento è tutto così imbarazzante.
E’ tutto così mortifero. Tragico. Violento.
E inaccettabile.

PS. Salvini mi ripugnava nel suo essere viscido.
Piantedosi mi terrorizza, nella sua cattiveria ottusa.

Il senso di questa Politica

Marco Cappato a San Benedetto del Tronto per promuovere il referendum sull'eutanasia legale.
Marco Cappato a San Benedetto del Tronto per promuovere il referendum sull’eutanasia legale.

La signora in pantaloni gialli e la mascherina azzurra appare mentre allestiamo il gazebo. Si guarda intorno spaesata, quindi si allontana rimpicciolendosi ad un angolo opposto.

Poco dopo arriva Marco Cappato, caduto nella sua mise consolidata: gli orribili mocassini, la camicia stropicciata nei calzoni senza cinta. La capigliatura improponibile, il solito sorriso gigione e sincero. Unica novità: il leggero brizzolato che gli tinge le basette.
Marco è lui. Puntuale e mai retorico. Appassionato e appassionante. Le persone fanno capannello intorno alle sue parole. Lo ascoltano attente.

La signora dai pantaloni gialli si avvicina. Inizia a filmare. Filma tutto l’intervento. Poi, al termine, è la prima ad avvicinarsi a Marco. Lei gli dice qualcosa. Lui sorride. Poi ammutolisce, mentre lei ha ancora la sua mano nella sua. Pochi attimi ancora, forse un ringraziamento, e la signora se ne va.
Incrocio i suoi occhi: sopra la mascherina, sono rossi, umidi di emozione. E di dolore. Profondo. Contingente.

La seguo con lo sguardo. Mi dico che forse, di quel dolore, stasera, la signora dai pantaloni gialli, ha trovato il giusto riscatto. E un po’ di sollievo.

E nei suoi occhi, questa Politica, tutto il suo senso.

“Potrò raccontarti”. Ogni cosa per la parola che salva.

Orlando Orlandi Posti - Piccolo Museo del Diario
Orlando Orlandi Posti – Piccolo Museo del Diario

Luigi, l’allampanato ma energico signore che avrete la fortuna di trovare a guidarvi per le stanze del Piccolo Museo del Diario, abile con le parole che si dicono come un esperto vasaio, racconta questa storia come se stesse parlando di un caro amico. Parlando della morte di Orlando (Orlando Orlandi Posti è fra le 335 vittime delle Fosse Ardeatine) Luigi lo fa con lo stesso dolore per la perdita di una persona cara, con la stessa tenerezza con cui si parla di un giovane fratello innamorato, della vita e di Marcella.

Siamo nel 1943, Roma è occupata dai nazisti. Lallo ha 18 anni quando viene catturato dalla SS e imprigionato.
Ha aderito a gruppi di partigiani studenteschi, si occupa di sabotaggio e propaganda. Dal carcere, riesce a inviare brevi, a volte brevissime, lettere a sua madre – la preoccupazione per la quale fu motivo della cattura – nascondendole nei colletti delle camice, che donne caritatevoli venivano a prenderle per lavarle. Sono decine, su minuscoli fogliettini: scritte con sangue e lapis che si procurava in ogni modo. Alcune di queste sono per Marcella, la sua Lellina. Dice Luigi che si erano visti poche volte (forse una soltanto) ma lui se ne era follemente innamorato e le scrive cose dolcissime. (Anche Luigi è innamorato di questa storia: lo si capisce da come dice “Lellina”).

In una di queste lettere preziose, parlando di un suo momento di profonda tristezza, Orlando le scrive: “Tutto finirà presto e tornerò da te e potrò raccontarti come si racconta una lontana fiaba”.

Ecco.
Orlando non dice: “tornerò da te e faremo l’amore”. O “ci sposeremo”. O “ti bacerò”. O “potremo finalmente realizzare tutti i nostri sogni”.
No. Niente di tutto questo.
Dice invece qualcosa che mi emoziona anche adesso.
Dice: “Potrò raccontarti“.

Che è un po’ come dire: “Potrò farti entrare dentro di me. Potrò trovare il tuo sguardo che vede la mia vita, la mia storia, il mio racconto, restituendo a tutto un senso. Potrò trovare un posto dove le parole saranno capite, comprese, curate. E – sembra – “potrò farlo solo con te”.

Perché le parole saranno anche “paioli fessi” per danze di orsi, ma alcune brillano di perfezione: quelle che solo alcune persone possono scambiarsi, facendo davvero “intenerire le stelle”.

Marco e Mina: creatori di speranza.

Eutanasia, Marco Cappato e Mina Welby assolti anche in appello per il caso Trentini.
Eutanasia, Marco Cappato e Mina Welby assolti anche in appello per il caso Trentini

Li chiamiamo Marco e Mina perché sono tanta parte della nostra vita politica, e quindi privata.

Sono Mina e Marco nei post, nei messaggi, nelle email, nelle chiacchiere perché é intimo ciò che sentiamo profondamente condiviso: una storia e un metodo. Nemmeno tanto un obiettivo.

Sono Marco e Mina perché il primo ha mantenuto quella quota di pudore e di timidezza che gli permette di entrare nel cuore di ognuno; l’altra – invece – è il vulcano-trottola che porta il suo sorriso e la sua testimonianza dappertutto gli venga richiesta.

Sono Mina e Marco – nella loro indipendenza, nella loro responsabilità – perché sanno farsi strumento di lotta; sanno produrre speranza quando non ne abbiamo più.

Marco e Mina sono noi.

***

Da luglio si raccolgono le firme per il referendum sull’Eutanasia legale.
Info qui: https://referendum.eutanasialegale.it/

Gli “zingaracci” di Kethanè

Sono gli ultimi giorni di Febbraio. Alcuni militanti del Movimento Kethane sono in sciopero della fame davanti al parlamento: in quel periodo le cronache riportano attacchi gravi a persone Rom e e Sinte; loro chiedono dialogo alle istituzioni.Questo è il terzo giorno che si astengono dal cibo. Dijana siede a terra: è spossata; accetta un caffè, poi dell’acqua, poi dello zucchero.

Poi, verso il palazzo, si alza la voce di Miguel. E’ una voce composta, chiara, ma piena di disperazione (“Sono anni che sfruttate i Rom e i Sinti per le vostre campagne elettorali […] il mio Presidente aveva promesso di difendere il popolo italiano, ma non vale per noi Rom”); Miguel grida tutta la sua angoscia e il suo sconforto, fino ad accasciarsi a terra anche lui, sfibrato.Non c’è ascolto: le istituzioni tacciono e rimarranno in silenzio nei giorni seguenti, ignorandoli con la stessa arroganza che in questi giorni si è fatta più cupa e più violenta.

Ogni volta che qualcuno cerca dialogo con le istituzioni, nel modo composto in cui lo hanno fatto loro, essi danno vita al primo atto della Democrazia: il richiamo al potere verso le proprie responsabilità. Tentanto, quindi, di farla vivere questa nostra Democrazia, di renderla più forte e più aperta. Non solo per chi chiede, ma per ognuno di noi.

Per questo, in questi tempi così bui di rappresentanza, gli “zingaracci” di Kethanè erano li a parlare anche per me; io parlavo con la loro voce; da loro, nella sconforto e nella speranza, mi sono sentito rappresentato.



La memoria rende liberi.

Liliana Segre a Servigliano, appena due giorni prima dell’Anniversario della Liberazione. Un evento che avrebbe potuto richiamare cittadini e cittadine a frotte, ma a cui, incomprensibilmente, non è stato dato il giusto risalto mediatico. La piazza di Servigliano avrebbe meritato di accogliere le parole vivificatrici della senatrice.

Saltate i primi 20 (inutili) minuti del politicume locale. 
Poi ascoltate.
«[…] Ho una grande pena per quella ragazzina di cui parlo, è una mia nipote, e quindi c’è questo senso di sdoppiamento in me […] io sono la nonna di quella ragazzina sola, infelice, con tutti i vuoti e l’orrore che ha dovuto vedere. 
Questo mi pesa sempre di più […] Io sono vecchia, vecchissima, ma sono sempre quella bambina che doveva fare la terza elementare e per la colpa di essere ebrea si è vista chiusa la porta della scuola e si ottant’anni dopo si vede aprire la porta del Senato.»

A Massimo Bordin, Principe di Libertà.

Massimo Bordin. Prima voce di Radio Radicale e principe di Libertà. Titolare di "Stampa e regime", rassegna stampa di politica dell'emittente.
Massimo Bordin. Prima voce di Radio Radicale e principe di Libertà.

Bordin.
Bordin, no.
Come perdere un senso. Un occhio; l’udito. 
La lente che mi veniva prestata ogni mattina e con cui interpretare la politica, il mondo. Con quell’intelligenza piena di guizzi, di precisione, di ironia calibrata e tagliente.
Una mente costantemente accesa, mai banale, elegantissima nella tua voce scomposta e nelle volute di fumo: un antidoto contro la mediocrità e la sciatteria argomentativa che impallinavi puntualmente, con sottilissimo gustoso cinismo.

Oggi la tua morte mi trafigge
E come non mi aspettavo. 
Mi sento inquieto e solo. Più povero: del tuo sguardo ogni volta nuovo; dei tuoi colpi di tosse inconfondibili; del tuo garantismo della ragione. 
Del tuo essere stato principe di libertà e di dissenso: che ci hai insegnato ad agire immancabilmente.
Grazie per essere stato al servizio della Politica
E quindi di ognuno di noi.

Mandanti di un olocausto.

Gli agenti della guardia costiera – di cui Salvini dice di fidarsi, e a cui rende onore – sono formati a La Spezia dalla nostra guardia di finanza. I militari libici intervistati in questo servizio di La7 parlando di “tanti morti”, di mezzi inadeguati, di traffici di persone “disposte alla morte” e delle responsabilità (meglio: colpe) della politica.

L’Italia, complice l’Europa, è mandante di questo olocausto che si consuma nelle carceri libiche come in mezzo al Mediterraneo. Se ci fosse un Dio non avrebbe nessuna pietà per noi. Per tutto questo terribile indicibile disumano orrore.

[…]
– Domanda: “Come funzionano i pattugliamenti?”
– Risposta: “Come vuoi che funzionino? L’altro giorno abbiamo soccorso 240 naufraghi. Di questi 60 sono morti annegati. […] I morti sono tanti. Ma tanti davvero. Quando il mare è molto mosso la mattina sulla spiaggia si trovano cadaveri. Sette, otto per volta. Uomini, donne, bambini. Un corpo vicino all’altro. Sono corpi irriconoscibili, putrefatti dai giorni passati in acqua.”
– D: “Siete attrezzati per salvarli?”
– R: “Non abbiamo ne attrezzature ne mezzi. Le motovedette in dotazione sono ferri vecchi mangiati dalla ruggine. Ogni volta che ci saliamo a bordo abbiamo paura che affondino. […] anche quelli che tiriamo su dal mare muoiono lo stesso perché non siamo addestrati ai primi soccorsi […] Di norma arriviamo per recuperare i corpi: l’Italia ci ha fatto avere 3 motovedette, ma noi abbiamo 2200 km di costa. Ce ne vorrebbero un centinaio.”
– D: “Ma gli italiani lo sanno in che condizioni lavorate?”
– R: “Loro sanno tutto.”
[…]


Intervista di La7 a due agenti della guardia costiera libica.

Fermare il vento con le mani.

[…]
Domanda: Voi pensate che il muro possa fermavi?
Risposta: Tutti dicono di no perché abbiamo lasciato il nostro paese, le nostre case per colpa della guerra. Non sarà un muro a fermarci.
D: Quel è il tuo sogno?
R: Il voglio diventare uno scienziato. Voglio vivere la mia vita. E questo è il mio sogno.
D: Cosa hai studiato?
R: Biochimica
D: Perché sei scappato dall’Afghanistan?
R: Se conosci l’inglese e sei istruito i talebani pensano che sei un interprete degli americani. Quindi mio padre mi ha detto: “dovresti lasciare il paese e cercarti una vita migliore”.
D: Da quanto sei qui?
R: Da 5 mesi. Non abbiamo alternative. Questa è la nostra ultima possibilità.

E poi c’è il sindaco che ha ideato il “system protection”.

«Ho detto che non sono rifugiati. Sono dei criminali. Non dobbiamo mischiarci. Io proteggo l’ordine naturale del mondo.»

L’ordine naturale del mondo.

 

Di carcere, attese, privazioni. E desideri.

Il carcere di Ascoli Piceno.

Il casa circondariale di Marino del Tronto ad Ascoli Piceno.

Enzo sfila velocemente dal cancello, con l’anta che si sta chiudendo. “Fai attenzione -dice la guardia, in un rimprovero bonario- queste porte non si bloccano se incontrano qualcuno”. Già: questi accessi non sono fatti per gli uomini. Ma per contenerli. Non aprono varchi, ma impongono limiti.
Inizia così, con questa considerazione banale la nostra visita al carcere di Marino del Tronto, ad Ascoli Piceno. E’ un sabato di metà Ottobre, una giornata di grigio smunto: i raggi del sole filtrano da dietro le nubi basse e lattiginose. La luce è una lama invisibile che ferisce comunque gli occhi.
Braccia che sporgono dalle sbarre. E’ la prima immagine del carcere: addirittura iconica, a cui dovrei essere preparato. Ma non lo sono. Il verde dei blindati, le braccia nude, il bianco grezzo dell’intonaco, il muro circolare che si avvita come in un girone dantesco: e il nodo che mi serra la gola. Guardo i miei compagni: non sono l’unico ad essere smarrito ed incerto; la premurosa accoglienza nel suo studio da parte della direttrice non è bastata.

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Behind The Wall

E’ il 19 Luglio 1988. Bruce è già una rock star affermata. Con la E street Band suona a Berlino Est, come lui chiede da un decennio. La registrazione del concerto, in un bootleg imperdibile -Behind The Wall-, gracchia un po’. Ma lo si ascolta sempre con tutta l’emozione che le parole di Bruce sappiamo dire; guardando i sorrisi di quei ragazzi; ciascuno perso nella folla del giorno, che urlano al cielo, come un solo uomo, Born In The USA; 180 mila persone, ma sembrano molte di più, tante a perdita d’occhio. Con nelle orecchie quell’urlo, tanto simile al “nostro”, quando Bruce li saluta. “E’ bello essere qui”, e immagina per loro un futuro “senza barriere”. Appena prima di intonare i Rintocchi della Libertà.
Un po’ del coraggio necessario, del desiderio di libertà, mi piace pensare, arrivò, per loro, in quel giorno. Il muro cadrà l’anno dopo.

Grazie a Springsteen and US a che ha ripreso il mio post. 🙂

La testimonianza di Damiana

Io sono iscritto all’Associazione Luca Coscioni, che sostiene apertamente l’eutanasia legale.

Però. Mi sono immaginato in questa stanza, con la signora Damiana. Seduto su quel letto, ad ascoltarla, con il suo parlare chiaro; i capelli bianchi di mia nonna. E ho avvertito tutto il mio disagio. La sensazione di un pensiero ritorto, di un fastidio pungente. Mi sono immaginato rassicurarla. Dirle -con sincerità- che no, lei ancora stava bene, che non doveva farlo. Che poteva rinunciarci.

Poi. Poi ho visto i suoi occhi guardarmi. I suoi lineamenti farsi duri, come la sua volontà. Decisa chiara nitida. E non ho trovato niente di quella difficoltà, di minima infermità o malessere che la mia coscienza da piccolo borghese cercava. Nè un vizio, nè una mania. Solo la richiesta ferma di poter affermare la sua volontà; l’agire -drammatico- della sua libertà.
E mi sono visto emozionarmi…

Come ogni volta, è questa la politica che più mi appassiona. L’unica che mi commuove.

Damiana, in qualsiasi parte tu adesso sia, grazie.

Bossi spolpato dai suoi. In cerca di un martire.

Bossi con l'asta degli occhiali nell'orecchio.

Non sono certo un sostenitore della Lega Nord, ne un fan di Bossi. In cui, invece, riconosco il peggior tribuno che l’Italia abbia avuto in questi anni. L’interprete – e il fomentatore – rozzo dei peggiori istinti del popolo troglodita.
Detto questo, l’immagine di lui con gli occhiali sghembi sul naso e l’asta infilata nell’orecchio, suscita al contempo pena e fastidio: indicandone tutta la miseria. Il celodurista del celodurismo è un malato fiacco e un demente da accudire. Come hanno fatto – male e con squallido profitto – la sua famiglia e i suoi compagni: in questo, più abietti e volgari di lui.

Spero solo che qualche buon amico lo consigli a ritirarsi a vita privata: e che i falchi – del suo partito, della sua famiglia, più che i magistrati – smettano di spolparlo per ridurlo a martire da consacrare al politicamente corretto.