Quando i giganti si mettono di lato.

Che magia.
Solo il Prof poteva. Solo il Prof poteva mettere così a disposizione la sua arte.
Vecchioni e Alfa interpretano “Sogna ragazzo sogna”. Davvero sono l’inizio e la fine: lui cantautore immenso piccolo e dolce, lui imberbe ragazzo alle prime esperienze. Iniziano, e Alfa, al primo cambio, infila gli occhi nella figura di Roberto come si vede qui: con tutta la gratitudine e l’amore che si può per un maestro. Il duetto continua; non è particolarmente efficace: c’è questo cantare cantilenante di Alfa che suona addirittura goffo.

Poi arriva la magia, proprio alla fine, viene annunciata da un sorriso sornione, sui versi:

“[…] Manca solo un verso
a quella poesia,
puoi finirla tu”


E lascia Alfa rappare dei bellissimi nuovi versi, che completano magnificamente la canzone, e quella poesia: un intarsio perfetto incastonato in un quadro già preziossimo.
Roberto si mette di lato, stringe i pugni e chiude gli occhi. E lì che ascolta.
Che sembra dire, in silenzio: “Ascoltatelo anche voi”.
Riconosce Alfa, la giovinezza, e l’arte del suo collega. Mettendo a disposizione la propria.
E’ un messaggio dolce e toccante. Che emoziona.

(Ho ascoltato tantissime volte questa canzone. E tantissime volte – da ragazzo – mi sono chiesto come quella poesia potesse concludersi. Senza mai avere il coraggio di scrivere nessun verso).

The Infinite

Lo scorso anno Patti Smith, nel suo concerto a Roma, ha declamato L’Infinito di Leopardi, a significare il rapporto stretto e profondo con la regione Marche.

Ci sono tantissime traduzioni in inglese di questa meravigliosa poesia. Patti Smith ha usato quela di Roland Rogers. Eccola:

This hermit hill was always dear to me,
with its hedgerow hiding
the last horizon in so many places.
But as I sit and gaze and conjure
unending spaces,
unearthly silences,
and utter sillness,
my heart almost stops in fear.
When… storming through the leaves
the wind brings me a voice to set against
the infinite silence; and eternity
and seasons past, are summoned
to breathe in this moment and sound.
And my thoughts drown in this vastness,
where to founder is sweet and gentle in this sea.

Disobbedire. Per non disobbedire a sè stessi.

L'attrice e regista Sibilla Barbieri
L’attrice e regista Sibilla Barbieri

Avete visto i video, ascoltato i podcast.
Quando a Sibilla si rompe la voce, a me si rompe il cuore.

Lei parla di sè, in uno stato di salute terribile, e si commuove quando parla della sofferenza degli altri come fosse la propria: “Io posso, e gli altri come faranno?”.
Ha un tremolio nella voce, trattiene il fiato con i denti. A volte la sua commozione tracima, ma ha questo portamento regale e questi occhi che ti puntano al cuore. Azzurri come quelli di Pannella: anche quelli di Sibilla interrogano le nostre coscienze. E ce le pongono di fronte.

E’ la coscienza di Sibilla contro la legge ingiusta. E’ la nostra coscienza contro la legge irragionevole: l’azione primaria per affermare nuovi diritti. “Perché è giusto”, dice lei. E sembra una verità solenne, antica come la vita.

Se amate la Politica, ascoltate il suo appello alle istituzioni, poi bruciate tutti i giornali pieni di politichese. I destinatari dovrebbero rendersi degni dell’interlocuzione di cui Sibilla li ha onorati. Rendersi degni della sua fiducia. Gli stessi che pretendono continuamente di giudicare le vite altrui, il dolore altrui (“Io mi trovo molto a disagio sul fatto che abbiano giudicato il mio dolore”, dice). Ma non smetteranno. E quegli occhi azzurri li inchioderanno ancora.

Oggi sappiamo che Sibilla aveva pienamente diritto di scegliere sulla propria vita. Era chiaro anche ieri, e prima della sua morte. E’ morta invece in esilio, strappando al suo corpo l’ultimo sforzo, per quel volo, e per quell’ultima azione. La violenza delle istituzioni non è più solo nella colpevole indecisione legislativa, ma anche negli irresponsabili tempi per richieste che richiedono risposte immediate.

Voglio ringraziare Sibilla. Per la sua lotta Politica; per averci messo a disposizione il suo dolore e la sua malattia per essere spesa per i diritti di tutti; grazie di questa eredità.
Grazie a suo figlio; alla sua famiglia. Alle 50 persone (“associazione a delinquere o difensori del diritto”, come ipotizzato da Cappato) iscritte a Soccorso civile. Grazie a Filomena, a tutti i Marco coinvolti, commossi, silenti e dolenti.
Tutto questo non è gratis. I costi personali ed emotivi sono altissimi.
Dovremmo ricordarcene sempre.

Enzo Tortora. Le lacrime per questa giustizia ingiusta.

Avvocato Raffaele Della Valle
L’avvocato Raffaele Della Valle

E’ un frame del docufilm trasmesso ieri in Rai su Enzo Tortora. Lui è l’avvocato Raffaele Della Valle un attimo dopo la sentenza di assoluzione di Enzo. Singhiozza, in lacrime.

Mi ha impressionato molto questo suo pianto. Nel film – imbolsito e con gli stessi occhi chiari, a quasi quarant’anni dagli eventi – parla di questa vicenda ancora con commozione profonda quando ricorda la prima sentenza: “Ero disperato, non tanto professionalmente, quanto perché capivo che avesse perso la giustizia. La sconfitta ero devastante, e mi sono sentito molto solo”.
La solitudine di una persona che vede crollare i pilastri della propria vita, da avvocato, ancor più da cittadino; della civiltà a cui appartiene. “Non c’era modo di farsi ascoltare” dice ancora in un passaggio. Qualcosa in cui precipitare, senza fondo, un gorgo senza sostegni e senza suono.

Il crimine giudiziario che subì Enzo Tortora andrebbe raccontato sempre, ogni giorno. Perché è una storia assurda come è iniziata (una complotto perverso fra giudici e pentiti); orribile come si è dipanata in modo kafkiano e infernale (7 mesi di carcere e la pervicace, accanita necessità del colpevole); e l’inaccettabile irresponsabilità dei giudici, nessuno dei quali messi mai di fronte alle loro colpe.

Quei pilastri non sono ancora così solidi. 900 errori giudiziari all’anno sono una ferita terribile e sempre sanguinante per questo stato di diritto. La lotta di Enzo non è ancora terminata.

Io Capitano. La storia di un desiderio.

Chi frequenta le sale cinematografiche – non come me – sa cosa significa “O.V.” premesso al titolo: “Original Version”. Solo qualche ora prima scoprivo, quindi, che avrei visto un film in lingua originale (il Wolof, non sapevo nemmeno esistesse), fatto che non esattamente mi entusiasmava. Vado poco al cinema, guardo poca tv, sono pigro: “perderò delle scene se devo leggere i sottotitoli”, mi dicevo.

Di Io Capitano non ci sono doppiaggi disponibili, verso nessuna lingua. La scelta di Garrone, il regista, quindi è stata precisa, l’ho capito solo dopo. Devi metterci un po’ del tuo – sembra dire il regista allo spettatore – che lo richiama ad un primo impegno intellettuale: quello dell’ascolto. Poi al mettersi scomodo, e capire e comprendere: che le vicende non sono esattamente come ci sono state raccontate per anni.

E lo spiegherà bene all’atto della consegna del premio: “E’ la loro storia – ha detto – io ho dato la mia voce”. Il fiato, la rappresentazione dei fatti, non il linguaggio, non la sostanza del racconto. Sembrava tremasse, mi hanno stupito molto le sue parole discrete, accorte e sussurrate.

Sono molti i piani di lettura disponibili. Sì, la migrazione. Ma anche l’amicizia, le relazioni famigliari, il senso di giustizia sono altrettanti piani di cui si potrebbe parlare. Tutti autentici, continuamente intrecciati gli uni agli altri, tutti scandagliati con verità. Io penso che quello che li coinvolge e li cuce tutti sia quello del desiderio.

“Io Capitano” è la storia di un desiderio. Non della disperazione, non della guerra, non di un dramma. Ma di una aspirazione bruciante e potente, che guida due cugini sedicenni a lavorare dopo la scuola per risparmiare i soldi per il viaggio verso l’Europa; che li guida attraverso la vergogna di dover partire all’oscuro dalle loro famiglie, e poi ancora oltre la paura. Per almeno due volte.

C’è un verso di Pierluigi Cappello che spiega tutto questo molto bene. Dice:
“[…] che il sogno alzi corone di dolcezza
e che ti porga la forza del freddo […]”

E’ la storia di questa forza che giunge dal freddo. Dal tetto di casa che cade a pezzi; da balli notturni che non sono abbastanza per le proprie aspirazioni; da sorelle che non possono inseguire i propri desideri; da una madre che chiede di restare.

Non c’è la narrazione del migrante che scappa per salvare la propria vita dalla morte certa, dalla disperazione di un conflitto dilaniante. Invece c’è il sogno, l’ingenuità, la fantasia, l’ambizione e anche la paura di voler migliorare la propria condizione e quella della propria famiglia.

E’ un desiderio che cresce, che via via si fa più chiaro, che scansa gli imprevisti e la ferocia dell’umano sull’umano, che supera la paura, che diventa – infine – responsabilità. Dopo averla avuta verso se stessi, dopo aver accarezzato e compreso i propri sogni, lo stesso desiderio si fa “di relazione”.

Seydou aspetta Moussa a Tripoli. Non sappiamo per quanto tempo, ma è in questo momento che il desiderio diventa “due”. Quando Seydou riabbraccia il cugino ferito, e di cui inizia a prendersi cura. Sono partiti sostenendosi a vicenda contro il dolore e la paura del deserto – c’è una fotografia incredibile dove più volte sono ripresi ad accarezzarsi ed abbracciarsi – proseguono accettando e condividendo un destino comune, tenendosi insieme.

Poi il desiderio diventa responsabilità collettiva. Non proprio, non di due, ma di tutti i compagni che affollano il barcone nel Mediterraneo. Succede quando Seydu decide che non vuole la responsabilità di guidare una barca di cui non sa nulla, come non sa nulla del mare. Succede, invece poi, quando accetta il rischio della traversata, mettendosi al timone e in testa alla speranza di tutti i compagni. Continua in questa responsabilità ogni volta che pensa nella dimensione del “noi” (“Nessuno morirà”) per il bene di ognuno. Succede quando risponde al “Capitano!” con cui viene richiesto per la prima volta; e quando infine lo urla con orgoglio nell’ultima commovente scena.

Dal personale diritti verso la comunità. In modo politico, diremmo. Se questa parola non fosse stata immediatamente espunta dalle recensioni del film che lo vogliono lontano dal politically correct.

La legge Turco-Napolitano – quella che ha istituito i CPT – è del 1998. Poi arrivò la Bossi-Fini. Ci abbiamo messo forse 30 anni per avere un film dove la telecamera è dal lato dei migranti, con uno sguardo che inizia molto a sud del Mediterraneo, piuttosto che fermarsi al nostro di europei.

Da ora, quando sentirò parlare di scafisti, non potrò non pensare a Seydou e alla sua forza. Non potrò non pensare a come sia fallace, e stupida, e parziale la narrazione dello scafista malvagio e suicida. Lo sguardo magnetico di Seydou, in quell’ultima scena, i suoi occhi neri e orgogliosi che guardando davanti a sé materializza con profondità l’angoscia e la liberazione. E il desiderio con cui – seppure continuamente ridicolizzato – dovremo, prima o poi, iniziare a fare i conti.

Roberto Vecchioni, l’ultimo maestro rimasto.

Roberto Vecchioni allo Squadre Music Festival, Montegiorgio
Roberto Vecchioni allo Squadre Music Festival, Montegiorgio

Sono stati diversi i momenti intensi, due giorni fa, durante il concerto di Roberto Vecchioni.

E’ salito sul palco alle 22 esatte, attaccando con la splendida “Ti insegnerò a volare” e ricordandoci, quando non sappiamo “correre e nemmeno camminare”, l’importanza di essere visti, sorretti e disegnati.

Ha una voce un po’ più flebile il Prof, ma la sua mente è sempre acuminata, e il suo modo di raccontare e raccontarsi sempre piacevole. Dice cose importanti, sull’amore soprattutto; sul suo amore, soprattutto; le intervalla con ironia, nostalgia e senso del presente, disegnando questo caleidoscopio di colori dove la musica è parte del racconto, è parte della vita che ha vissuto e che vive.

“Non ci sono più maestri” – dice – “io io ne ho avuti tanti”, e inizia El Bandolero Stanco. E a me viene in mente quel viaggio con Vincenzo, dalle Marche fino a Roma, solo per strade urbane, ad ascoltare questi nostri autori. Vincenzo sapeva interpretarlo magnificamente, aggiungendo aneddoti ad ogni canzone, e sapeva, forse di più, emozionarsi davanti alla sua poesia e alle sue parole. Davanti al treno de La Stazione di Zima, ad esempio. Testimoni di maestri, passati di mano in mano. Che mancano tanto.

E poi ci sono state quelle due/tre canzoni in cui la recente storia personale (il suo rapporto con la morte, e la morte terribile di suo figlio solo qualche settimana fa) ha invaso la scena. “C’è una madre distrutta” aveva sussurrato su qualche canzone prima. E ogni volta che parla di Daria, per tutta la sera in questo continuo e bellissimo omaggio alla persona che è con lui “quasi” da sempre, lo fa con grazia e ironia. E consapevolezza: “Che fortuna che ho avuto”.

“Siamo al culmine”, dice. “Devo farla, perché l’artista è colui che racconta. Senza non è niente”. E canta Le Rose Blu. In questo che chiama “dialogo, non una preghiera”, dice a Dio per suo figlio: “Fagliele rifiorire”. E mi ritrovo anche io con questo pensiero eretico, eppure così umano. Che Dio avrebbe potuto, avrebbe addirittura dovuto. Invece c’è solo questo dolore, il suo e della mamma di Arrigo, che ha reciso la corolla facendo rimanere solo il gambo di spine. Arriva al termine il Prof, emozionato e piangente, piegato in due. Attraversando quel quel dolore, senza sottrarsi a nulla. Senza sottrarsi mai.

Un momento prima di iniziare questa canzone, dice una frase di grande tenerezza. Ha detto: “Adesso questo momento di intensità, poi proverò a farvi ridere”. Proverò a farvi ridere. Come se avesse voluto scusarsi per averci invaso della sua emozione e del suo dolore. Come se avesse voluto aver cura di noi; dirci che quel dolore sarebbe passato, e sarebbe tornata la gioia. Quella che per tutta la serata ci ha dato: gioioso della vita senza finzione, addolorato con la stessa vita che gli tolto suo figlio. Ma succede così per tutte le sue cose: hanno la capacità di farsi ampie, spesso doppie, a volte contrastanti, ma sempre intrecciate dallo stesso filo rosso dell’amore.

Una carriera lunghissima, 53 anni a scuola, 80 anni da poco compiuti. Un ultimo album con tantissime cose dette, musicalmente e non e uno spettacolo capace di far comparire sulla scena Ulisse, Vincent Van Gogh, Leopardi, la combattente curda Ayse Deniz Karacagil. Non so chi altri sia stato così intenso da intrecciare letteratura e poesia. Letteratura, musica, poesia e amore così strettamente alla propria vita.

The Wrecking Band. Musica ed emozioni vicini alla luna.

Diego Mercuri e la Wrecking Band
Diego Mercuri e la Wrecking Band

Ad un tratto è apparsa la luna a salutare Diego e i ragazzi. Poi è salita fin nel nero della notte per essere il segno del buon auspicio che tutti gli auguriamo. Dal terrazzo di Montefalcone, con una veduta mozzafiato sulla valle, credo non poteva esserci luogo migliore per festeggiare i 10 anni della Wrecking Band. Ormai è una macchina rodata che suona le proprie canzoni e le proprie cover con precisione, con gusto, divertendosi.

La prima volta che ho ascoltato Diego era un agosto di una decina di anni fa. Era issato, da solo con la sua chitarra, sopra ad un palco al lato di un campo da calcetto e di non so quanti bimbi scalmanati completamente disinteressati a lui e alla sua musica. Eravamo in pochi ad ascoltarlo: quelli che cercavano musica di Bruce per lenire la propria astinenza.

Ora ha un proprio pubblico, ha affinato la sua tecnica, ha 4 moschettieri (forse 5) con cui condivide ed esprime la propria arte, ha scritto canzoni bellissime che lo narrano e in cui ha messo il cuore, porta la gioia e il dolore della musica a chi lo ascolta. Ha fatto molta strada, ne farà tanta altra, senza perdere nulla della semplicità di cui è capace.

Stasera ha cantato una versione da brividi di The Sound of Silence che spero si possa trovare presto online. C’è dentro tutto il suo genio, la sua arte, e questa sua voce che si trasforma davanti ad un microfono: piena della capacità di emozionare.

I Ragazzi del Paradiso. Storia di bambini adulti.

Ragazzi del Paradiso di Majid Majidi

Un solo paio di scarpe da ginnastica per due. Sono di Ali e Zahra, fratello e sorella in una indigente famiglia di Teheran. Lui perde le piccole scarpe rosa di lei, appena ritirate dal ciabattino: non possono far altro che accordarsi per scambiarsi, ogni mattina, le uniche calzature rimaste, quelle di Alì. Zahra gli corre incontro ogni giorno, dopo essere stata a scuola, affinché anche lui possa recarsi in classe nel pomeriggio.

Corrono Alì e Zahra. Corrono fra le vie di una Teheran di cui è rimasto pochissimo; corrono, in mezzo alle botteghe, sopra ai canali di scolo, sotto la pioggia; corrono per sfuggire alla povertà, alla sfortuna, alle ingiustizie. Corrono perché sono dei piccoli adulti, costretti a prendersi cura dei loro genitori, silenziando i propri bisogni, arrabattandosi per non dare altre preoccupazioni alla loro povera famiglia, facendosi carico di cose che non dovrebbero riguardarli.

Fatevi strizzare un po’ il cuore dai sorrisi tristi di questi due bimbi. Dalle loro lacrime, e anche dalla loro allegria mentre giocano con le bolle di sapone. Quando corrono a perdi fiato. Quando inseguono una felicità impossibile, ma lo fanno con tutte le forze che hanno in corpo. Quando ci mettono tutto il loro desiderio, la propria testardaggine. Quando riparano e proteggono la relazione fra loro; e quando riparano alle preoccupazioni dei propri genitori. Quando sentono una miseria ancor più grande della propria, e sanno rimanere in silenzio. Quando subisco l’ingiustizia da parte degli adulti, incapaci di relazionarsi con loro. Quando sanno continuare a rifornire di speranza e desiderio le proprie azioni.

E’ un piccolo gioiello da veder Children of Heven. E’ un film iraniano del 1997 (l’anno de La Vita è Bella). Ragazzi del Paradiso. Lo trovate su Prime.

Springsteen, qualcosa di intimo come la morte.

L’emozione, giovedì a Ferrara, è arrivata quando l’hostess mi ha stretto al polso il braccialetto del pit. Era qualcosa a cui non avevo pensato, e quella fascia mi ha svegliato dal torpore: sei ad un concerto di Bruce, puoi pensare solo a divertirti.
Attendevo gli uomini-ragno inerpicarsi lassù al margine del palco. E invece no: la band è entrata qualche minuto dopo le 19:30 rompendo una routine che pensavo fosse confermata. Non sarà la prima rottura.

Per la prima volta ho avuto l’impressione che Bruce abbia “tenuto per sé” qualcosa, della consueta – ed anche giovedì confermata – generosità sul palco. Abbia deciso per una lunga monografia intorno a se stesso, abbia deciso di farsi ascoltare ma di più abbia voluto farsi comprendere. Bene, molto bene. Sono una novità i testi e lo speech tradotti: con cui racconta il suo rapporto con la giovinezza, con gli anni di una carriera lunghissima. Con la morte. Forse è la prima volta che Bruce canta una biografia così potente, con sè stesso così al centro: senza personaggi a cui appoggiarsi, senza le scene cinematografiche che conosciamo, senza proiezioni: parla di sé in prima persona, di come è diventato l’uomo e l’artista che è; parla di come si sta relazionando alla (sua) morte, perfettamente descritta con l’immagine potente del treno e della luce.

Certo. Ha confezionato uno show diverso da quello a cui eravamo abituati (il juke box, la festa continua, il suo concedersi incessantemente ai fan), ma io penso che Bruce abbia messo in conto di regalarci questa “mancanza”. Perché sente di avere sempre meno tempo, e sente di voler essere compreso, in modo non banale. Questa sua umanissima fragilità a me stupisce e commuove. Ieri pensavo a “Guarda che non sono io” di De Gregori. Mi sembra che Bruce, fra le note (fra “Last man standing”, e la chitarra issata su Backstreets), senza rimpiangere nulla, volesse dire: “Sì, so farti divertire e commuovere. Ma ecco un pezzo di me, tienilo e ascoltalo. Abbine cura”. Abbine cura, addirittura.

Non credo sia un addio. Ha ricordato sempre che continuerà a fare live (con spettacoli organizzati in modo diverso, magari) e ad avere una relazione privilegiata con i suoi fan. Ma in questo periodo vuole che la comunicazione sia di un certo tipo: più riflessiva, più intimistica. Vuole che le sue parole arrivino per restare. E’ cambiato, sì, forse. E questo adattamento gli è conforme e necessario. Io l’ho trovato un regalo bello e grande.

Non parlerò di musica. Non occorre. Non è una questione di bravura, di qualità, di band che sembra un organismo perfetto. Nè della sua voce, o di tutti quelli – al primo concerto – che mi raccontano la propria meraviglia. Non è importante. E’ importante quello che ha creato (con la gioia, la malinconia, l’energia solo sua) nel corso degli anni. E’ importante quel feelling. Il suo desiderio di dircelo.

Per ultimo, solo una cosa sulla polemica intorno l’alluvione. Si, non ha detto niente. Ma io preferisco giudicarlo non per qualcosa in cui (forse) è mancato ma per tutte le volte che, invece, ha espresso la sua solidarietà, con le parole e il suo patrimonio. Non sapremo mai se è stato un “errore” o una scelta volontaria. Io avrei preferito altro, ma non cambia nulla nella sua storia. E nella stima che ho di lui.

“Non devono”. Il proibizionismo uccide sempre.

Ministro Piantedosi

“Non devono partire”.
“Non devono drogarsi”.
Per giunta: “Non devono morire”.

Il proibizionismo uccide e produce dolore. Un dolore sordo perché inspiegabile, perché contro scelte private. E continuerà a farlo. finché non ci saranno soluzioni legali, di diritto, che le persone possono utilizzare. Vale per la droga, l’immigrazione, il fine vita. Vale sempre.

Uno stato che sente di difendersi da comportamenti privati è uno stato etico (e non è un caso che nella conferenza stampa di ieri Piantedosi indichi comportamenti “morali”, secondo la propria moralità). E’ uno stato etico tout court, e destinato a fallire perché si pone lontano dalla ragione per cui, modernamente, è stato pensato: limitarsi a difendere le libertà di ognuno.

In Italia di politici (progressisti o conservatori) che pensano che la libertà debba avere una motivazione giustificata dallo stato, un confine oltre a quello unico del privato dell’altro, sono tanti e troppi: da destra come a sinistra lo sfascio dall’accordo Italia-Libia di Berlusconi e di Gentiloni; i voti del PD contro la Cannabis legale; il silenzio continuo sull’Eutanasia; Calenda che fa il ventriloquo a Piantedosi (“fermare le rotte illegali” senza proporne di legali) sulla tragedia di queste ore. E mi fermo qui per carità di patria.

Sono tutti potenti impotenti di fronte alla coscienza di ogni cittadino, piccoli dittatorelli insulsi che credono di poter imporre la propria morale a ogni migrante, a ogni persona che aspiri a qualcosa di meglio per sé, o che vive (semplicemente vive) un proprio privato comportamento: è sempre la violenza di chi paventa la legge e il carcere contro il proprio legittimo desiderio, contro scelte private. Perderanno sempre. E’ solo questione di tempo.

Per il momento è tutto così imbarazzante.
E’ tutto così mortifero. Tragico. Violento.
E inaccettabile.

PS. Salvini mi ripugnava nel suo essere viscido.
Piantedosi mi terrorizza, nella sua cattiveria ottusa.

Gaia Tortora, in cerca di giustizia giusta.

Gaia Tortora, Testa alta e avanti
Gaia Tortora, Testa alta e avanti

«Credo nel potere delle storie di cambiare il mondo, e spero che, almeno un po’, possa avercelo anche la mia».

Amo la Giustizia quanto ho avversione per i sui (necessari) riti e le sue regole. Mi rendo conto di non saper calare cerimonie e norme nei fatti e nelle storie che leggo; a volte ogni passaggio nella forma della legislazione mi sembra assurdo e lontano.

Per questo il tempo dedicato a leggere il libro di Gaia Tortora “Testa alta e avanti. In cerca di giustizia, storia della mia famiglia” mi ha riconciliato con un tipo di lettura che non facevo da tempo. Quello della Giustizia che si mischia con le storie e le vicende delle persone: in questo libro, specificatamente, con la storia della famiglia Tortora, violentata da una malagiustizia decisamente più criminale che negligente.

L’autrice parla del suo mondo di bambina messo a soqquadro da un evento inspiegabilmente doloroso e kafkiano che si schianta sulla sua vita di quattordicenne cambiandola per sempre.
Lei ne ricostruisce i passaggi, la storia, i volti, le mani di chi l’ha tenuta (Piero Angela -sì-; la zia materna), gli occhi di chi l’ha guardata (Carlo Romeo da Teleroma 56), la forza (da “soldato”, da “guerriera” come si definisce), il carcere terribile e la corrispondenza dolcissima, “il sorriso usato come scudo”, la sua amica Stefania e la “sorellona” Silvia. Il giornalismo; il dolore vissuto in apnea. Infine, ad anni di distanza, il crollo e la rinascita (“mi sono sentita nascere per la prima volta”).

Sono traiettorie che Gaia Tortora ha dovuto seguire, a volte senza coscienza, a volte solo perché era ineluttabile farlo; altre le ha seguite per scelta, per desiderio oltre il dolore e la tragedia, oltre quel velo di perdita di cui sono coperte tutte le sue cose.

Parla del suo dramma, del silenzio in cui si è calata (“facevo la mia parte così, arrangiandomi”), del lento cammino (costantemente in evoluzione) verso se stessa, degli inciampi e dei piccoli successi. Parla di Giustizia (“voglio che questa battaglia faccia parte di me”) in modo elaborato; è chiaro che quello che scrive è frutto di una coscienza profonda, misurata, un abito indossato con eleganza e decisione, con prudenza e sobrietà. Descrive il tracollo della giustizia italiana (“Siamo diventati la bara del diritto”) in modo minuzioso, dettagliato ma mai definitivo. Snocciola numeri, vicende, storie per raccontare – tenendosi lontano, come dice, dalla tifoserie e dalle strumentalizzazioni – le vicende nelle aule giudiziarie, nelle carceri (“quel ‘clang’ delle porte scorrevoli […] chi non è abituato non se lo aspetta, fa trasalire”), i rapporti politica-magistratura, il pentitismo, la magistratura-spettacolo e le troppe volte in prima serata.

Ne ha per tutti. Con decisione, con coraggio, ma in modo garbato, quasi con tenerezza. Alla tenerezza cede solo una volta, ricordando il perdono chiesto da Melluso: “Sono pronto ad inginocchiarmi davanti alla sua famiglia”. “Stia pure in piedi” rispose con orgoglio.

Da persona informata, ne ha anche per la categoria a cui appartiene, quella del giornalismo, a cui imputa gran parte del dolore causato da sentenze spettacolarizzate (“un giornalismo aggressivo che punta a vendere tre copie in più” e che invece dovrebbe limitarsi “a dare le notizie, non interpretarle”). Lo fa non solo enunciando principi ma accettando di essere la rompiscatole di redazione attenta ai dettagli, ai nomi, agli aggetti, ai virgolettati: e quindi attenta a non calpestare -oltre- la vita delle persone.

Vi piacerà. E’ un libro che può essere letto da tante angolazioni. Dovrebbero leggerlo chi ha fatto della Giustizia il proprio lavoro; i giornalisti che vi troveranno una nuova traccia imperfetta riguardo il proprio mestiere; i cittadini che vogliono conoscere il marchingegno (a volte infernale) della giustizia italiana; o semplicemente i lettori a cui piace leggere storie di rinascita. Se a questa si giunge mai.

PS. Portobello -nonostante i silenzi in trasmissione- parlava. Con Gaia e Silvia: le bambine gli avevano insegnato tante parolacce.

Il Diario di Pietra. Come le parole lacerano.

Alessandra Cotoloni, Il diario di Pietra
Alessandra Cotoloni, Il diario di Pietra

«[…] grafico metrico mobile della mortalità ospedaliera 10% per radiazioni magnetiche teletrasmesse 40% per malattie varie trasmesse o provocate 50% per odi e rancori personali provocati o trasmessi […]»

E’ un libro sulla durezza – e sulla rudezza – della parola.

Sull’intagliarla, scolpirla nella pietra. Sulla parola (silenziosa e negata) come oggetto di dolore; come mezzo di difesa, come arma acuminata; sulla responsabilità di pronunciarla, sull’essere perennemente tradita, incompresa, asservita.

E’ un libro sulla necessità di dire e “fare” parola; su ogni mezzo, con ogni mezzo. Fernando sul cemento di una parete ed un corrimano, con la punta di un ardiglione. Sul “fare” ad ogni costo: quando si è visti, quando si è letti, e quando no. Fino al tormento e allo strazio delle mani, che si fanno sempre più piccole e più tozze.

E’ un libro sull’amore di saper guardare; di saper decrittare: «Non sa la pazienza che mi ci è voluta per cercare di decifrarle; scriveva e faceva quei suoi disegni geometrici con indicazioni di date, elenchi di minerali e colori, parlava di luoghi, stati, città, elencava date di nascita di parenti immaginari, costruiva quelle sue strane genealogie mettendoci dentro di tutto, regine, papi, gente che aveva sentito nominare alla radio». Un libro sull’inventiva creatrice e dolorosa, su come la nostra mente sappia trovare una strada anche nel buio e nella sofferenza.

Benché molti passi siano romanzati, la storia – incredibile ed inquietante – di Nof4 è assolutamente da leggere. Per lunghi tratti la trovate ancora lì, dove è stata scolpita: sulle pareti del manicomio di Volterra, di cui è stato involontario “ospite” per 40 anni.

Baraye

Per la libertà.

Per il desiderio di ballare nelle strade.
Per il timore di baciarsi in pubblico.
Per mia sorella, per tua sorella, per le nostre sorelle.
Per cambiare quelle menti corrotte.
Per la vergogna della povertà.
Per l’augurio di una vita normale.
Per i bambini costretti a cercare nella spazzatura, e per i loro sogni.
Per questa economia di regime.
Per quest’aria inquinata.
Per la via Valiahd e i suoi alberi consumati.
Per l’estinzione del Pirooz.
Per i cani randagi banditi.
Per questo singhiozzare inconsolabile.
Per non ripetere più questo momento.
Per un viso sorridente.
Per gli studenti, per il loro futuro.
Per questo “paradiso” forzato.
Per gli intellettuali imprigionati.
Per i bambini afghani.
Per tutti questi, troppi, “per”.
Per tutti questi slogan senza senso.
Per il crollo di questi fragili edifici.
Per sentirsi in pace.
Per l’alba dopo queste notti scure.
Per gli psicofarmaci e l’insonnia.
Per l’uomo, la patria, la prosperità.
Per quella ragazza che desiderava essere un ragazzo.
Per la donna, la vita, la libertà.

***

Shervin Hajiaghapour è stato arrestato per questa canzone, poi liberato su cauzione.

La traduzione è mia, dall’inglese.

Chain of our sins: il racconto di Bruce.

Sign of brotherhood. Chi ama Bruce sa che di quel “chain of our sins” è intrisa tutta la sua musica. Tutta la sua arte. Tutta la sua storia. Tutta la sua vita.
C’è quel senso di redenzione e sconfitta, di breve successo e bruciante malinconia in ogni nota: la misura non solo della distanza dal sogno americano (come disse una volta) ma la distanza di quello che è, è voluto profondamente essere, scegliendo differenziazione, rottura, indipendenza. La sua distanza dal gorgo “dei peccati”. Un gorgo dove l’amore di suo padre, e per suo padre, era la cifra della difficoltà e del dolore. E’ stato un lungo percorso rendersene conto.

Potessi, gli direi che gli voglio bene. Potessi lo abbraccerei quando raccontando quello che racconta, si emoziona. E piange.

Questo è l’intro a Long Time Comin’, live al Kerr Theatre, a New York, NY nel Luglio 2018. Questo il testo trascritto in inglese.

“Erano gli ultimi giorni della prima gravidanza di Patti. E ricevo una visita a sorpresa da parte di mio padre, a casa mia, a Los Angeles. Aveva guidato 500 miglia, senza preavviso, per bussare alla mia porta. Questo è il suo stile. Quindi, alle 11:00, ci sediamo nella sala da pranzo illuminata dal sole e ci prendiamo delle birre del mattino; questo è il suo stile. Questa è la colazione dei campioni di mio padre.

Mio padre, che non è stato mai un uomo loquace, giusto, ad un tratto dice: “Sei stato molto buono con noi”. Annuisco, era la verità, e lui continua: “Ed io non sono stato molto buono con te”. La stanza mi sembrò si fermasse. Rimasi shockato: l’inammissibile veniva per la prima volta riconosciuto [the unacknowledgeable was being acknowledged]. E se non lo avessi saputo, avrei giurato che mi stesse chiedendo scusa in qualche modo; così era.

Quindi negli ultimi giorni prima che diventassi padre, mio padre veniva a trovarmi per avvertirmi degli errori che aveva commesso e per avvertirmi di non farli con i miei figli. Liberarli dalla catena dei nostri peccati, di mio padre e miei e dei nostri padri prima, affinché siano liberi, di fare le proprie scelte e di vivere la propria vita. Possiamo essere fantasmi o essere antenati nella vita dei nostri figli. O poniamo i nostri errori, i nostri fardelli su di loro e li perseguitiamo, oppure li aiutiamo a deporre quei vecchi fardelli e li liberiamo dalla catena del nostro comportamento imperfetto.

E come antenati, camminiamo al loro fianco e li aiutiamo a trovare la propria strada e un po’ di trascendenza. Mio padre, quel giorno, mi chiedeva un ruolo ancestrale nella mia vita dopo essere stato un fantasma per molto tempo. Voleva che scrivessi una nuova fine alla nostra relazione e voleva che fossi pronto per il nuovo inizio che stavo per vivere. È stato il momento più bello della mia vita con mio padre, ed era tutto ciò di cui avevo bisogno

Poi è iniziata Long time comin’:

[…] It’s been a long time comin’, my dear
it’s been a long time comin’
but now it’s here

Well my daddy he was just a stranger
lived in a hotel downtown
when I was a kid he was just somebody
somebody I’d see around
somebody I’d see around

Now down below and pullin’ on my shirt
I got some kids of my own
well if I had one wish
in this god forsaken world, kids
it’d be that your mistakes would be your own
yeah your sins would be your own […]

Nanci Griffith, e quegli occhi voraci di mondo

Ho conosciuto Nanci Griffith in una delle tante peregrinazioni intorno alle cover cantate da Bruce. A decine: un mostra straordinario per omaggiare colleghi famosissimi, o altri meno conosciuti. E del resto, io non ho mai avuto molti altri modi per conoscere altri artisti.

Bruce aveva provato “Gulf Coast Highway” di Nanci in un sound check nel Tunnel Of Love tour. Credo non la canterà mai ufficialmente; ma ci sono bootleg dove è possibile ascoltare quella performance. C’è Patti e c’è questo “La la la” che scioglie le spalle, che cerca di ridisegnare leggerezze. Anche se è un sound check, anche se è del tutto informale. E c’è questa strofa arpeggiata con la chitarra che somiglia vagamente a “My beautiful reward”.

Mi piacque. Pensai che Bruce doveva essere affascinato da un testo molto – troppo simile – ai suoi: l’hard job, le rotaie, le highway, i cofani blu, i perdenti. E dalla sua voce da “andate tutti a quel paese”, come avrebbe detto Baricco di lui anni dopo, e “perfetta per finire”.

Dopo quell’ascolto presi ad ascoltare Nanci Griffith per un po’ di tempo. Mi sembrò – ma sono valutazioni che non sapevo fare allora ne adesso – un talento cristallino; mi ispirò sicuramente per il suo essere un’artista generosa, vicina al suo pubblico, ma soprattutto con tante storie “americane” da raccontare. Da “Furore” a Roth. Dal country a folk. Dall’amore alla fuga. Sempre con quel sorriso un po’ dimesso, un po’ fuori fuoco; quegli occhi grandi voraci di mondo. E quella voce che invece rendeva sacra ogni nota che accarezzava. Con la delicatezza e l’intensità di un cordoglio.

Ho scoperto solo ieri che lo scorso anno Nanci Griffith è morta. Da ieri, ho ripreso ad ascoltarla. Chissà che le sue canzoni non mi dicano altro, oltre a quello che mi raccontarono 30 anni fa. E quel cordoglio ora non sia solo malinconia.

Sentita questa che bella.