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“Non devono”. Il proibizionismo uccide sempre.

Ministro Piantedosi

“Non devono partire”.
“Non devono drogarsi”.
Per giunta: “Non devono morire”.

Il proibizionismo uccide e produce dolore. Un dolore sordo perché inspiegabile, perché contro scelte private. E continuerà a farlo. finché non ci saranno soluzioni legali, di diritto, che le persone possono utilizzare. Vale per la droga, l’immigrazione, il fine vita. Vale sempre.

Uno stato che sente di difendersi da comportamenti privati è uno stato etico (e non è un caso che nella conferenza stampa di ieri Piantedosi indichi comportamenti “morali”, secondo la propria moralità). E’ uno stato etico tout court, e destinato a fallire perché si pone lontano dalla ragione per cui, modernamente, è stato pensato: limitarsi a difendere le libertà di ognuno.

In Italia di politici (progressisti o conservatori) che pensano che la libertà debba avere una motivazione giustificata dallo stato, un confine oltre a quello unico del privato dell’altro, sono tanti e troppi: da destra come a sinistra lo sfascio dall’accordo Italia-Libia di Berlusconi e di Gentiloni; i voti del PD contro la Cannabis legale; il silenzio continuo sull’Eutanasia; Calenda che fa il ventriloquo a Piantedosi (“fermare le rotte illegali” senza proporne di legali) sulla tragedia di queste ore. E mi fermo qui per carità di patria.

Sono tutti potenti impotenti di fronte alla coscienza di ogni cittadino, piccoli dittatorelli insulsi che credono di poter imporre la propria morale a ogni migrante, a ogni persona che aspiri a qualcosa di meglio per sé, o che vive (semplicemente vive) un proprio privato comportamento: è sempre la violenza di chi paventa la legge e il carcere contro il proprio legittimo desiderio, contro scelte private. Perderanno sempre. E’ solo questione di tempo.

Per il momento è tutto così imbarazzante.
E’ tutto così mortifero. Tragico. Violento.
E inaccettabile.

PS. Salvini mi ripugnava nel suo essere viscido.
Piantedosi mi terrorizza, nella sua cattiveria ottusa.

Marco e Mina: creatori di speranza.

Eutanasia, Marco Cappato e Mina Welby assolti anche in appello per il caso Trentini.
Eutanasia, Marco Cappato e Mina Welby assolti anche in appello per il caso Trentini

Li chiamiamo Marco e Mina perché sono tanta parte della nostra vita politica, e quindi privata.

Sono Mina e Marco nei post, nei messaggi, nelle email, nelle chiacchiere perché é intimo ciò che sentiamo profondamente condiviso: una storia e un metodo. Nemmeno tanto un obiettivo.

Sono Marco e Mina perché il primo ha mantenuto quella quota di pudore e di timidezza che gli permette di entrare nel cuore di ognuno; l’altra – invece – è il vulcano-trottola che porta il suo sorriso e la sua testimonianza dappertutto gli venga richiesta.

Sono Mina e Marco – nella loro indipendenza, nella loro responsabilità – perché sanno farsi strumento di lotta; sanno produrre speranza quando non ne abbiamo più.

Marco e Mina sono noi.

***

Da luglio si raccolgono le firme per il referendum sull’Eutanasia legale.
Info qui: https://referendum.eutanasialegale.it/

Liberi fino alla fine

Marco Cappato insieme a Marco Pannella
Marco Cappato insieme a Marco Pannella. Straordinaria foto di Lorenzo Ceva Valla

Marco stasera tornerà a casa e si farà un bel pianto.
Quello che trattiene a stento, con il microfono sotto al mento, quando stasera parla di Piero (lui dice Piero) Welby; quando ricorda che questa battaglia, iniziata 13 (t-r-e-d-i-c-i) anni fa, è stata fatta da decine di malati (e prova a snocciolarli sempre tutti) che hanno reso pubblica la propria condizione di sofferenza, dando corpo alla migliore Politica (il resto chiamatelo spartizione del potere) che io conosca.

E quando dice: “Chi aiuta un malato non dovrà più subire l’infamia della minaccia del carcere“.

E poi domani chiamerà, come promesso, Carmen, la mamma di Dj Fabo, e si congederà con un altro: “Ti bacio tanto”.
Il bacio del ringraziamento e della libertà.

La memoria rende liberi.

Liliana Segre a Servigliano, appena due giorni prima dell’Anniversario della Liberazione. Un evento che avrebbe potuto richiamare cittadini e cittadine a frotte, ma a cui, incomprensibilmente, non è stato dato il giusto risalto mediatico. La piazza di Servigliano avrebbe meritato di accogliere le parole vivificatrici della senatrice.

Saltate i primi 20 (inutili) minuti del politicume locale. 
Poi ascoltate.
«[…] Ho una grande pena per quella ragazzina di cui parlo, è una mia nipote, e quindi c’è questo senso di sdoppiamento in me […] io sono la nonna di quella ragazzina sola, infelice, con tutti i vuoti e l’orrore che ha dovuto vedere. 
Questo mi pesa sempre di più […] Io sono vecchia, vecchissima, ma sono sempre quella bambina che doveva fare la terza elementare e per la colpa di essere ebrea si è vista chiusa la porta della scuola e si ottant’anni dopo si vede aprire la porta del Senato.»

Fucilazione

Bolle di sapone

Un bambino faceva le bolle di sapone
dalla finestra quando mi fucilarono
sulla piazza piantata di alberi senza nome
una mattina deserta con poco sole
tra i rami secchi che non trattenevano le voci,
tra quinte grige di imposte sprangate
oscillavano effimere formazioni, grappoli
subito disfatti in acini trasparenti.
Un bimbo, solo una tenera macchia viva
in un rettangolo nero,
c’era un vasetto rosso sul davanzale,
la sola cosa rossa di quel giorno tutto grigio,
io non potevo vedere i suoi occhi
sentivo la sua anima appendersi dondolando
in cima alla cannuccia di paglia,
staccarsi con un brivido, volare in silenzio,
trattenere il fiato per pregare il vento,
attraversare il poco sole in punta di piedi,
rapita in una smorfia di felicità.
I miei carnefici gli voltavano le spalle,
nessuno di loro poté vedere le sue mani
sollevarsi in adorazione quando una bolla
più gonfia, la più bella di tutte,
partì dal davanzale come un pianeta di cristallo
e prima di scendere sali verso il tetto
come una preghiera, come una favola,
piena d’ogni dolcezza che non si può perdere,
intatta e vera per il suo tempo giusto,
non ci sono abbastanza plotoni d’esecuzione
in questo mondo e in ogni altro
per fucilare tutte le bolle di sapone.

— Gianni Rodari

Di carcere, attese, privazioni. E desideri.

Il carcere di Ascoli Piceno.

Il casa circondariale di Marino del Tronto ad Ascoli Piceno.

Enzo sfila velocemente dal cancello, con l’anta che si sta chiudendo. “Fai attenzione -dice la guardia, in un rimprovero bonario- queste porte non si bloccano se incontrano qualcuno”. Già: questi accessi non sono fatti per gli uomini. Ma per contenerli. Non aprono varchi, ma impongono limiti.
Inizia così, con questa considerazione banale la nostra visita al carcere di Marino del Tronto, ad Ascoli Piceno. E’ un sabato di metà Ottobre, una giornata di grigio smunto: i raggi del sole filtrano da dietro le nubi basse e lattiginose. La luce è una lama invisibile che ferisce comunque gli occhi.
Braccia che sporgono dalle sbarre. E’ la prima immagine del carcere: addirittura iconica, a cui dovrei essere preparato. Ma non lo sono. Il verde dei blindati, le braccia nude, il bianco grezzo dell’intonaco, il muro circolare che si avvita come in un girone dantesco: e il nodo che mi serra la gola. Guardo i miei compagni: non sono l’unico ad essere smarrito ed incerto; la premurosa accoglienza nel suo studio da parte della direttrice non è bastata.

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La testimonianza di Damiana

Io sono iscritto all’Associazione Luca Coscioni, che sostiene apertamente l’eutanasia legale.

Però. Mi sono immaginato in questa stanza, con la signora Damiana. Seduto su quel letto, ad ascoltarla, con il suo parlare chiaro; i capelli bianchi di mia nonna. E ho avvertito tutto il mio disagio. La sensazione di un pensiero ritorto, di un fastidio pungente. Mi sono immaginato rassicurarla. Dirle -con sincerità- che no, lei ancora stava bene, che non doveva farlo. Che poteva rinunciarci.

Poi. Poi ho visto i suoi occhi guardarmi. I suoi lineamenti farsi duri, come la sua volontà. Decisa chiara nitida. E non ho trovato niente di quella difficoltà, di minima infermità o malessere che la mia coscienza da piccolo borghese cercava. Nè un vizio, nè una mania. Solo la richiesta ferma di poter affermare la sua volontà; l’agire -drammatico- della sua libertà.
E mi sono visto emozionarmi…

Come ogni volta, è questa la politica che più mi appassiona. L’unica che mi commuove.

Damiana, in qualsiasi parte tu adesso sia, grazie.