Etichettato: immigrazione

Io Capitano. La storia di un desiderio.

Chi frequenta le sale cinematografiche – non come me – sa cosa significa “O.V.” premesso al titolo: “Original Version”. Solo qualche ora prima scoprivo, quindi, che avrei visto un film in lingua originale (il Wolof, non sapevo nemmeno esistesse), fatto che non esattamente mi entusiasmava. Vado poco al cinema, guardo poca tv, sono pigro: “perderò delle scene se devo leggere i sottotitoli”, mi dicevo.

Di Io Capitano non ci sono doppiaggi disponibili, verso nessuna lingua. La scelta di Garrone, il regista, quindi è stata precisa, l’ho capito solo dopo. Devi metterci un po’ del tuo – sembra dire il regista allo spettatore – che lo richiama ad un primo impegno intellettuale: quello dell’ascolto. Poi al mettersi scomodo, e capire e comprendere: che le vicende non sono esattamente come ci sono state raccontate per anni.

E lo spiegherà bene all’atto della consegna del premio: “E’ la loro storia – ha detto – io ho dato la mia voce”. Il fiato, la rappresentazione dei fatti, non il linguaggio, non la sostanza del racconto. Sembrava tremasse, mi hanno stupito molto le sue parole discrete, accorte e sussurrate.

Sono molti i piani di lettura disponibili. Sì, la migrazione. Ma anche l’amicizia, le relazioni famigliari, il senso di giustizia sono altrettanti piani di cui si potrebbe parlare. Tutti autentici, continuamente intrecciati gli uni agli altri, tutti scandagliati con verità. Io penso che quello che li coinvolge e li cuce tutti sia quello del desiderio.

“Io Capitano” è la storia di un desiderio. Non della disperazione, non della guerra, non di un dramma. Ma di una aspirazione bruciante e potente, che guida due cugini sedicenni a lavorare dopo la scuola per risparmiare i soldi per il viaggio verso l’Europa; che li guida attraverso la vergogna di dover partire all’oscuro dalle loro famiglie, e poi ancora oltre la paura. Per almeno due volte.

C’è un verso di Pierluigi Cappello che spiega tutto questo molto bene. Dice:
“[…] che il sogno alzi corone di dolcezza
e che ti porga la forza del freddo […]”

E’ la storia di questa forza che giunge dal freddo. Dal tetto di casa che cade a pezzi; da balli notturni che non sono abbastanza per le proprie aspirazioni; da sorelle che non possono inseguire i propri desideri; da una madre che chiede di restare.

Non c’è la narrazione del migrante che scappa per salvare la propria vita dalla morte certa, dalla disperazione di un conflitto dilaniante. Invece c’è il sogno, l’ingenuità, la fantasia, l’ambizione e anche la paura di voler migliorare la propria condizione e quella della propria famiglia.

E’ un desiderio che cresce, che via via si fa più chiaro, che scansa gli imprevisti e la ferocia dell’umano sull’umano, che supera la paura, che diventa – infine – responsabilità. Dopo averla avuta verso se stessi, dopo aver accarezzato e compreso i propri sogni, lo stesso desiderio si fa “di relazione”.

Seydou aspetta Moussa a Tripoli. Non sappiamo per quanto tempo, ma è in questo momento che il desiderio diventa “due”. Quando Seydou riabbraccia il cugino ferito, e di cui inizia a prendersi cura. Sono partiti sostenendosi a vicenda contro il dolore e la paura del deserto – c’è una fotografia incredibile dove più volte sono ripresi ad accarezzarsi ed abbracciarsi – proseguono accettando e condividendo un destino comune, tenendosi insieme.

Poi il desiderio diventa responsabilità collettiva. Non proprio, non di due, ma di tutti i compagni che affollano il barcone nel Mediterraneo. Succede quando Seydu decide che non vuole la responsabilità di guidare una barca di cui non sa nulla, come non sa nulla del mare. Succede, invece poi, quando accetta il rischio della traversata, mettendosi al timone e in testa alla speranza di tutti i compagni. Continua in questa responsabilità ogni volta che pensa nella dimensione del “noi” (“Nessuno morirà”) per il bene di ognuno. Succede quando risponde al “Capitano!” con cui viene richiesto per la prima volta; e quando infine lo urla con orgoglio nell’ultima commovente scena.

Dal personale diritti verso la comunità. In modo politico, diremmo. Se questa parola non fosse stata immediatamente espunta dalle recensioni del film che lo vogliono lontano dal politically correct.

La legge Turco-Napolitano – quella che ha istituito i CPT – è del 1998. Poi arrivò la Bossi-Fini. Ci abbiamo messo forse 30 anni per avere un film dove la telecamera è dal lato dei migranti, con uno sguardo che inizia molto a sud del Mediterraneo, piuttosto che fermarsi al nostro di europei.

Da ora, quando sentirò parlare di scafisti, non potrò non pensare a Seydou e alla sua forza. Non potrò non pensare a come sia fallace, e stupida, e parziale la narrazione dello scafista malvagio e suicida. Lo sguardo magnetico di Seydou, in quell’ultima scena, i suoi occhi neri e orgogliosi che guardando davanti a sé materializza con profondità l’angoscia e la liberazione. E il desiderio con cui – seppure continuamente ridicolizzato – dovremo, prima o poi, iniziare a fare i conti.

“Non devono”. Il proibizionismo uccide sempre.

Ministro Piantedosi

“Non devono partire”.
“Non devono drogarsi”.
Per giunta: “Non devono morire”.

Il proibizionismo uccide e produce dolore. Un dolore sordo perché inspiegabile, perché contro scelte private. E continuerà a farlo. finché non ci saranno soluzioni legali, di diritto, che le persone possono utilizzare. Vale per la droga, l’immigrazione, il fine vita. Vale sempre.

Uno stato che sente di difendersi da comportamenti privati è uno stato etico (e non è un caso che nella conferenza stampa di ieri Piantedosi indichi comportamenti “morali”, secondo la propria moralità). E’ uno stato etico tout court, e destinato a fallire perché si pone lontano dalla ragione per cui, modernamente, è stato pensato: limitarsi a difendere le libertà di ognuno.

In Italia di politici (progressisti o conservatori) che pensano che la libertà debba avere una motivazione giustificata dallo stato, un confine oltre a quello unico del privato dell’altro, sono tanti e troppi: da destra come a sinistra lo sfascio dall’accordo Italia-Libia di Berlusconi e di Gentiloni; i voti del PD contro la Cannabis legale; il silenzio continuo sull’Eutanasia; Calenda che fa il ventriloquo a Piantedosi (“fermare le rotte illegali” senza proporne di legali) sulla tragedia di queste ore. E mi fermo qui per carità di patria.

Sono tutti potenti impotenti di fronte alla coscienza di ogni cittadino, piccoli dittatorelli insulsi che credono di poter imporre la propria morale a ogni migrante, a ogni persona che aspiri a qualcosa di meglio per sé, o che vive (semplicemente vive) un proprio privato comportamento: è sempre la violenza di chi paventa la legge e il carcere contro il proprio legittimo desiderio, contro scelte private. Perderanno sempre. E’ solo questione di tempo.

Per il momento è tutto così imbarazzante.
E’ tutto così mortifero. Tragico. Violento.
E inaccettabile.

PS. Salvini mi ripugnava nel suo essere viscido.
Piantedosi mi terrorizza, nella sua cattiveria ottusa.

Mandanti di un olocausto.

Gli agenti della guardia costiera – di cui Salvini dice di fidarsi, e a cui rende onore – sono formati a La Spezia dalla nostra guardia di finanza. I militari libici intervistati in questo servizio di La7 parlando di “tanti morti”, di mezzi inadeguati, di traffici di persone “disposte alla morte” e delle responsabilità (meglio: colpe) della politica.

L’Italia, complice l’Europa, è mandante di questo olocausto che si consuma nelle carceri libiche come in mezzo al Mediterraneo. Se ci fosse un Dio non avrebbe nessuna pietà per noi. Per tutto questo terribile indicibile disumano orrore.

[…]
– Domanda: “Come funzionano i pattugliamenti?”
– Risposta: “Come vuoi che funzionino? L’altro giorno abbiamo soccorso 240 naufraghi. Di questi 60 sono morti annegati. […] I morti sono tanti. Ma tanti davvero. Quando il mare è molto mosso la mattina sulla spiaggia si trovano cadaveri. Sette, otto per volta. Uomini, donne, bambini. Un corpo vicino all’altro. Sono corpi irriconoscibili, putrefatti dai giorni passati in acqua.”
– D: “Siete attrezzati per salvarli?”
– R: “Non abbiamo ne attrezzature ne mezzi. Le motovedette in dotazione sono ferri vecchi mangiati dalla ruggine. Ogni volta che ci saliamo a bordo abbiamo paura che affondino. […] anche quelli che tiriamo su dal mare muoiono lo stesso perché non siamo addestrati ai primi soccorsi […] Di norma arriviamo per recuperare i corpi: l’Italia ci ha fatto avere 3 motovedette, ma noi abbiamo 2200 km di costa. Ce ne vorrebbero un centinaio.”
– D: “Ma gli italiani lo sanno in che condizioni lavorate?”
– R: “Loro sanno tutto.”
[…]


Intervista di La7 a due agenti della guardia costiera libica.

Fermare il vento con le mani.

[…]
Domanda: Voi pensate che il muro possa fermavi?
Risposta: Tutti dicono di no perché abbiamo lasciato il nostro paese, le nostre case per colpa della guerra. Non sarà un muro a fermarci.
D: Quel è il tuo sogno?
R: Il voglio diventare uno scienziato. Voglio vivere la mia vita. E questo è il mio sogno.
D: Cosa hai studiato?
R: Biochimica
D: Perché sei scappato dall’Afghanistan?
R: Se conosci l’inglese e sei istruito i talebani pensano che sei un interprete degli americani. Quindi mio padre mi ha detto: “dovresti lasciare il paese e cercarti una vita migliore”.
D: Da quanto sei qui?
R: Da 5 mesi. Non abbiamo alternative. Questa è la nostra ultima possibilità.

E poi c’è il sindaco che ha ideato il “system protection”.

«Ho detto che non sono rifugiati. Sono dei criminali. Non dobbiamo mischiarci. Io proteggo l’ordine naturale del mondo.»

L’ordine naturale del mondo.

 

L’ultimo amore.

La foto è del New York Times, di Lynsey Addario nello specifico, rilanciata da ArabPress.
Su un pacchetto di sigarette, in un dialetto egiziano, l’ultimo canto d’amore di un migrante: “A.”, per quanto si legge. E’ stato trovato al porto di Pozzallo, in Sicilia.

“Avrei voluto stare con te. Mi raccomando non ti dimenticare di me. Ti amo tanto.
Vorrei tanto che tu non ti dimenticassi di me. Stai bene amore mio.
Ti amo. A ama R. “

Lo riporto qui. Nell’idea, vana, di dare eco alla sua voce.

L'ultimo biglietto d'amore di un  migrante.

L’ultimo biglietto d’amore di un migrante, trovato a Pozzallo (Sicilia)